Matteo Renzi è un dilettante, ma non uno sprovveduto. Ed è sbagliato associarlo sempre a Berlusconi. Nel nostro linguaggio il termine «dilettante» ha un sapore vagamente sprezzante, o quanto meno ironico, contrapposto a «professionista». Ma non è un caso che proprio nel nostro paese (non altrove) il termine di professionismo politico abbia acquistato un significato sempre più negativo. Facciamo un passo indietro. Il primo Berlusconi è entrato in politica e ha raccolto consensi proprio contrapponendosi ai professionisti della politica. In realtà il suo non era un «dilettantismo politico» ma un professionismo di stile aziendale, tentativamente trasposto in politica. Poco alla volta Berlusconi si è circondato di politicanti servizievoli e di mediocri uomini e donne la cui principale competenza consisteva nell’eseguire le sue direttive. Abbiamo visto come è finita. La lettera di Sandro Bondi ieri alla Stampa («FI ha fallito, sosteniamo Renzi») è una schietta, drammatica testimonianza anche se il riferimento a Renzi è problematico.
E’ un difetto d’analisi, quasi una psicosi dei commentatori critici di sinistra, collocare Renzi accanto a Berlusconi. Oltretutto costoro dimenticano la lezione che avrebbero dovuto trarre dal successo del berlusconismo, cioè le speranze o le illusioni che ha sollevato nel paese, al di là delle sue evidenti connotazioni di classe (il berlusconismo infatti è sempre di destra), di modernizzare il paese, di liberalizzare risorse, di sburocratizzare. Attraente sembrò persino l’attesa di una maggiore efficienza decisionale e di una qualche riforma istituzionale. Ma soprattutto uno stile politico e comunicativo nuovo che dagli avversari veniva criticato come «populista». Ma non si poteva negare che c’era un potenziale politico che il berlusconismo ha interpretato, sfruttato e poi deluso.
Nel frattempo il populismo nelle sue più diverse varianti si sta manifestando in maniera così estesa da rischiare di perdere ogni connotazione specifica di contenuto, persino la differenza tra destra e sinistra. Basta un leader capace, la sua abilità comunicativa, rigorosamente mediatizzata e diretta verso un «popolo» più virtuale che reale.
Detto questo, la semplice sequenza nominalistica «berlusconismo-populismo-renzismo» va respinta. Anche se i più benevoli e scrupolosi commentatori segnalano che quello di Renzi è un populismo di sinistra e fanno l’elenco delle iniziative decise e quelle programmate.
Ma in questo contesto dove sta il «dilettantismo»? In che cosa consiste?
Ripetiamo: il dilettante, di cui parliamo, non è uno sprovveduto, né in termini caratteriali tanto meno professionali. L’esperienza di Matteo Renzi come amministratore locale a vari livelli vale molto di più di quella di un politico di mestiere che ha fatto la sua carriera tra segreteria di partito e stanze ministeriali. Il dilettantismo di cui parlo è il gusto di rischiare là dove i professionisti sono bloccati da vincoli interni e ambientali; è la volontà di privilegiare la novità non solo di sostanza ma anche di immagine, se questa ha un effetto di mobilitazione o di motivazione rispetto a quanto è già stato scontato in esperienze precedenti; è sfidare avversari e alleati con scadenze strette di decisione e di realizzazione ben sapendo che i professionisti contano sugli indugi per guadagnare risorse di resistenza (si veda quanto accade nel Senato).
Questo tipo di comportamento sfiora l’azzardo e funziona a condizione che il leader possa contare su un gruppo d’urto di collaboratori, a lui affini o comunque leali, che a loro volta interpretano diffuse attese latenti nella popolazione e quindi nell’elettorato potenziale.
Il pericolo cui va incontro questo «dilettantismo» è la tentazione di sentirsi autosufficiente, quando va oltre l’orizzonte dell’emergenza in cui è costretto a muoversi attualmente. E’ il pericolo di un respiro culturale corto.
La Stampa 24.04.14