Caro Direttore, raccolgo con piacere l’invito di Eugenio Scalfari a fornire chiarimenti sul programma di finanza pubblica approvato dal Parlamento il 17 aprile. Tanto più alla vigilia di elezioni europee in vista delle quali l’Unione viene troppo spesso descritta come un’entità astratta capace solo di dettare vincoli.
Certamente la programmazione ruota intorno ad alcuni parametri definiti nei trattati dell’Unione, che l’Italia ha volontariamente sottoscritto. Il più noto di questi è il rapporto tra deficit nominale pubblico e Prodotto Interno Lordo (Pil). Il Trattato di Maastricht ha fissato al 3% il valore soglia per questo rapporto. Con le successive riforme al Patto di Stabilità e Crescita, ai Paesi Membri è stato richiesto di specificare un obiettivo in termini di saldo di bilancio strutturale (ovvero il deficit nominale al netto degli effetti derivanti dalle misure temporanee e dal ciclo economico), finalizzato al conseguimento di una posizione di bilancio prossima al pareggio o in avanzo nel medio termine. Perché se spendi più di quanto incassi accumuli un debito che prima o dopo dovrai ripagare; puoi farlo quando è necessario, ma in altri periodi dovrai tornare all’equilibrio, altrimenti il debito continuerà a crescere. Proprio per impedire l’aumento incontrollato del debito pubblico il Parlamento italiano ha ritenuto opportuno inserire nella nostra Costituzione il principio dell’equilibrio tra entrate e spese.
Tuttavia il percorso di avvicinamento agli obiettivi di medio termine del Patto di Stabilità e Crescita prevede anche forme di flessibilità. In particolare, a fronte di eventi al di fuori dal controllo dei governi o nel caso di gravi recessioni, ma anche in presenza di importanti riforme strutturali, il Patto permette di ritardare il percorso di convergenza verso l’obiettivo di medio termine consentendo uno scostamento temporaneo.
In virtù di questa flessibilità e tenuto conto della lunga e profonda fase recessiva che ha portato a una perdita di circa 9 punti percentuali di Pil rispetto ai livelli pre-crisi, il Governo ha quindi chiesto alle Camere di approvare uno scenario programmatico di finanza pubblica che prevede nel 2015 un saldo di bilancio strutturale negativo per un decimo di punto percentuale di Pil (—0,1%). Il rapporto nominale deficit/Pil (il famoso tetto del 3%) non è in discussione: la disciplina fiscale perseguita dai governi italiani negli ultimi anni ha condotto a risultati sostanziali e nessuno può negare che i cittadini italiani abbiano sopportato un sacrificio enorme per tenere i conti in regola nonostante la recessione. L’effetto di questi sacrifici sui conti pubblici è l’avanzo primario più elevato nell’Unione, insieme a quello della Germania. Grazie a questi risultati, che vanno preservati, oggi il Paese è finalmente capace di rimuovere quegli ostacoli alla crescita che ne hanno bloccato per lunghi anni le potenzialità. Ostacoli presenti prima ancora della grande crisi, aggravati dalla grande crisi, e che oggi rallentano la rapidità con cui usciamo dalla grande crisi. Abbiamo collocato le riforme strutturali in un orizzonte pluriennale (quello appunto del Documento di Economia e Finanza) perché consapevoli che i benefici maggiori arriveranno nell’arco di un paio di anni. E abbiamo messo in campo misure di breve periodo — dal sostegno ai consumi al pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni — tali da accelerare i fattori della ripresa e rendere più efficaci le misure adottate. Questo cantiere (riforme strutturali più misure di pronto impatto) richiede il rinvio di un anno del pareggio strutturale di bilancio. È un onere che il sistema nel suo insieme può sostenere, mentre aiutiamo i ceti meno abbienti e le imprese ad uscire dalla crisi.
La Repubblica 23.04.14