Il decreto che rende consultabili i documenti sulle stragi che hanno insanguinato il Paese ha valore di grande rilievo, concreto e simbolico. Attiene a un vulnus profondo della nostra democrazia, può contribuire a renderla più trasparente su un versante decisivo. È, se è lecito dirlo, una scelta di sinistra: ed è arduo parlare di «facile ricerca di consensi elettorali», come è stato fatto altre volte dopo scelte non scontate del premier. Forse occorre partire anche da qui per chiedersi perché è così difficile valutare non tanto e non solo l’azione specifica di Matteo Renzi ma l’ispirazione generale che lo muove. Nella discussione di questi mesi le critiche motivate alle sue scelte e ai suoi progetti si sono spesso intrecciate a una sorta di chiusura preventiva, quasi a una “riserva
di sinistra”. SI SONO accompagnate anche alla mancata valorizzazione del frutto più importante del suo governo: una embrionale ripresa di attese e di speranze da parte di un Paese sin lì sempre più disilluso, quasi “incattivito”. Giunto a livelli di astensione e di antipolitica inimmaginabili in passato. Si può certo discutere di questa o quella scelta fatta da Renzi ma dietro la sua idea di sinistra sembra esservi in primo luogo l’urgenza di una riconquista dei cittadini alla fiducia nella democrazia. L’urgenza, anche, di proporre forti proiezioni nel futuro. E “L’Italia cambia verso” non può non evocare “l’Italia che noi vogliamo” del primo governo Prodi (il migliore che il Paese abbia avuto negli
ultimi vent’anni).
Difficile negare poi l’importanza di altri due aspetti su cui si è fondata la “sinistra di Renzi”: da un lato l’urgenza di sbloccare l’impasse istituzionale, ponendo realmente in agenda questioni ormai marcite (dalla legge elettorale alla fine del bicameralismo perfetto, e sino a quel rapporto fra Stato e Regioni che era stato peggiorato proprio dalla vecchia sinistra); dall’altro la ripresa di iniziativa in Europa sul solco di azioni già intraprese e con la accresciuta forza di un programma di riforme concretamente avviato. Con la capacità, anche, di portare il Pd nella famiglia del socialismo europeo superando per la prima volta resistenze di lungo periodo. Qualunque giudizio si voglia dare il riformismo di Renzi è stato questo, in questi mesi. E ad esso si sono opposte non solo, occorre ripetere, fondate critiche ma più spesso una damnatio preventiva che ha via via chiamato in causa categorie più generali: dall’uso estensivo del termine di “populismo”, analizzato bene ieri da Ilvo Diamanti, sino all’equiparazione di Renzi con Craxi e Berlusconi. Forse conviene partire da qui, perché in questa equiparazione vi è una pallida intuizione e al tempo stesso una deformazione della realtà. Non vi è dubbio che le forme-partito del Novecento, basate sulla militanza e sull’appartenenza, siano entrate in crisi già negli anni Ottanta del secolo scorso. E il Psi di allora vide il primo delinearsi di un “partito personale”: con l’acclamazione diretta del premier e la sostituzione del massimo organo di decisione politica, il Comitato centrale, con una pletorica assemblea di “nani e ballerine”, per dirla con il socialista Formica. Era il Congresso del 1984: l’anno stesso della morte di Berlinguer, fischiato proprio da quell’assise, e c’è poco da aggiungere. Che rapporto c’è però fra quel mutar di pelle del Psi craxiano, colto subito da Norberto Bobbio, e le due “primarie” combattute da Matteo Renzi, capaci di coinvolgere milioni di persone? E cosa c’entra con esse il partito-azienda berlusconiano? Stupisce semmai che nei commenti più ostili a Renzi l’accostamento riguardi anche il programma politico di Berlusconi, quello millantato e quello più concretamente perseguito: quel pochissimo che ha riguardato i cittadini, perlomeno.
Vi è un precedente, ad esempio, alla determinazione con cui Berlusconi ha perseguito l’abolizione dell’Imu anche per gli altissimi redditi: anni fa il suo secondo governo aveva tolto appunto anche ad essi la tassa di successione, già abolita dal centrosinsitra per i redditi medio- bassi. E la riduzione delle tasse era stata irresponsabilmente agitata da Berlusconi per riguadagnare consenso anche nel 2011, all’indomani delle sue sconfitte alle elezioni amministrative e nei referendum, nell’incombere di una crisi che poteva essere disastrosa. Che rapporto c’è con le scelte e con le ricerche di copertura di questo governo, che si possono certo discutere ma di cui andrebbe messo in risalto anche il contrasto con pratiche precedenti? Rispetto poi al governo Monti la differenza più evidente sta proprio in una ricerca di equità sociale di cui — anche qui — possono esser criticati tempi e modalità ma non la reale consistenza. Nei mesi del governo Monti, ha annotato il Censis, vi fu una nefasta divaricazione fra un “interventismo pedagogico”, incapace di alimentare speranza, e la fatica di un vivere quotidiano sempre più gravoso: e su questa divaricazione crebbe ulteriormente un populismo gonfio di rancore. È difficile negare che qualche passo in opposta direzione sia pur stato mosso, in questi mesi: ed è ancor più difficile negare che questo sia un aspetto centrale. Non occorrono troppe parole, infine, per sottolineare la differenza fra questa prima fase del governo Renzi — pur condizionata dalla sua anomala maggioranza — e la totale afasia che aveva caratterizzato il centrosinistra sin dalla sciagurata campagna elettorale del 2013. Perché, dunque, in un quadro segnato sia da novità che da incertezze a queste ultime si è riferita in modo spesso unilaterale non solo e non tanto la polemica del Movimento 5 Stelle ma anche un’area ampia dei commentatori e talora la stessa minoranza del Pd? Qui ritorniamo forse al nodo centrale: i pilastri della tradizionale cultura di sinistra, così come l’abbiamo conosciuta, sono entrati in crisi irreversibile alcuni decenni fa. Non da essa ma solo da nuove visioni di futuro possono semmai muovere ipotesi e modalità della politica capaci di contendere a Renzi l’egemonia sul terreno principale: la capacità di ridare ai cittadini quella fiducia nella democrazia e quella speranza di futuro che negli ultimi anni è sembrata abbandonarli.
La Repubblica 23.04.14
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