«Gli italiani devo fidarsi di più dei loro scienziati! Non dimenticate che avete una grande storia scientifica, non solo artistica». John Harris, direttore dell’«Institute for Science, Ethics and Innovation» dell’Università di Manchester, confessa di avere un debole per i monumenti e i cibi italiani e a Roma – al terzo incontro del Congresso mondiale per la libertà di ricerca scientifica organizzato dall’Associazione Coscioni – ha spiegato in che cosa sbagliano i suoi amici italiani, quando affrontano le sfide e i dilemmi della scienza. Titolo della lezione: «Esiste una scienza della moralità?».
Professore, in Italia molti sono rassegnati all’idea che la scienza generi scontri continui e insanabili. Esiste una soluzione?
«Penso che, se si vuole che l’opinione pubblica cambi idea ogni volta che sbaglia, sia fondamentale che la scienza diventi più comprensibile».
E gli scienziati devono impegnarsi di più, spiegando meglio le loro scoperte?
«Assolutamente sì. Prendiamo il caso degli embrioni e di cosa succede al loro interno. È un processo così sofisticato che non è plausibile credere - come molti fanno – che nelle fasi iniziali siano una mini-versione di noi e abbiano quindi gli stessi diritti di un individuo. La natura, infatti, è incredibilmente sprecona, visto il numero minimo di embrioni che diventano feti e bambini. Dio stesso butta via embrioni in proporzioni colossali! Solo se lo si capisce si disinnesca una forma sbagliata di reverenza. Più si comprende la scienza, più sappiamo quali valori applicare».
Quali sono questi valori?
«Iniziamo dalla distinzione tra moralità ed etica: la prima – detto in modo un po’ platonico – è la scienza del giusto e dello sbagliato, del bene e e del male, la seconda è lo studio di questa scienza. Sono quindi due realtà diverse, anche se per molti appaiono intercambiabili. Ed è a causa di questa confusione che si ritiene che il bene e il male e le questioni etiche siano solo questioni di valori: si assume che siano materia di opinioni e non di fatti. A Roma ho spiegato, invece, che ciò che è buono per la collettività è sempre basato sui fatti».
Quindi qual è la conclusione?
«La mia idea è che le proposizioni morali – i valori – sono come le affermazioni della scienza. Tendono a essere oggettive e quindi ben comprensibili».
Molti, però, ribatterebbero che si tratta di concetti di «bene» o di «male» diversi, a volte addirittura incompatibili: cosa risponde?
«Che non è così. Il mio concetto è che tutti sappiamo qual è questa differenza, come dimostra l’esperienza di allevare i figli. E, oltre gli individui, lo sanno – o dovrebbero saperlo – anche i governi, sebbene spesso tendiamo a dimenticarlo».
Purtroppo siamo lontani da questa chiarezza di idee: c’è bisogno di nuove regole?
«Non c’è dubbio che ci siano problemi su come gestire ciò che possiamo fare e su ciò che facciamo nel nome del “public interest”, l’interesse collettivo: ci sono cose “buone” per alcuni e non per altri. Non nego certo queste complicazioni. Ma i calcoli di valore che richiedono sono come i calcoli scientifici sulle variabili in gioco. E, invece, si tende a esagerare i toni e arriviamo a invocare gli scontri di principi, trascurando le priorità autenticamente razionali».
Com’è riuscita la Gran Bretagna a diventare un caso esemplare di gestione delle grandi questioni scientifiche, dalla sperimentazione sugli embrioni all’eutanasia?
«Abbiamo evoluto un sistema che ha alle spalle i terribili conflitti religiosi del passato e si basa su due principi che non tutte le nazioni hanno. Il primo è che non è consentito appellarsi a considerazioni di tipo settario. La conseguenza è che la Chiesa cattolica, a differenza di quanto accade in Italia, non ha titolo per dominare la discussione pubblica. Il secondo elemento è la predisposizione a instaurare lunghi e approfonditi dibattiti pubblici. Ci sono molti esempi».
Uno clamoroso?
«Pensiamo alla possibilità di riprogrammare le cellule della pelle in uova e spermatozoi: significa poter essere, allo stesso tempo, sia madre sia padre del proprio futuro figlio. È una prospettiva che fa paura, ma con applicazioni riproduttive davvero straordinarie. È anche un esempio di come la natura sia mutevole».
La libertà di ricerca dev’essere assoluta o no?
«Non si deve tentare di controllare la ricerca, ma, quando individua qualcosa di potenzialmente pericoloso, si deve regolarla meglio, il che significa capirla meglio, dato che la scienza può avere utilizzi e applicazioni multipli. Cancellare un settore di studio potrebbe significare anche eliminare soluzioni future, oltre che potenziali pericoli. La scienza è nata per soddisfare la curiosità della nostra specie. E io sono molto felice che siamo così curiosi. Ma la scienza – non dimentichiamolo – è anche ciò che ci permette di ridurre il male e accrescere il bene di cui parlavo all’inizio».
La Stampa 23.04.14