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«La prima volta davanti allo specchio C’è un’altra persona che mi guarda da lì», di Lucia Annibali

Oggi è il giorno spartiacque. Se la visita di controllo va bene, possiamo lasciare l’appartamento a Parma e tornare tutti a casa, e non c’è un solo motivo per credere che qualcosa non funzioni. Quindi arrivo in ospedale con la certezza che la mia nuova vita a Urbino mi stia aspettando già per domani. A pensarci bene, non ho molta voglia di andar via da qui. Non so se voglio uscire da questa campana di vetro che finora mi ha così protetto. Qui mi sento al sicuro. Entro nella sala medicazioni e trovo un’infermiera che mi insegna a lavarmi il viso. D’ora in poi dovrò fare da sola: serve molta delicatezza e una grande attenzione, mi spiega. Chiedo a lei e al Califfo se per favore posso tornare a casa sbendata: ne ho abbastanza delle fasciature sulla faccia. Dice di sì, posso farlo. In questi giorni sono migliorata molto con gli occhi, ma vedo ancora male e perciò capisco più col tatto che con la vista quanto sapone liquido devo usare per lavarmi, perché l’infermiera me ne versa un po’ nel palmo della mano sinistra.
«Vado?». «Vai». Per la prima volta le dita delle mie mani, avvolte da una schiuma morbida, sfiorano la pelle del viso, la sentono ferita, la accarezzano. Mi viene in mente un paesaggio marziano; i polpastrelli percorrono croste che forse una volta sono stati crateri di piccoli vulcani; individuano solchi che, chissà, magari erano fiumiciattoli; toccano increspature dove un tempo c’era sicuramente dell’acqua. «Un tempo era un pianeta vivo, la mia faccia. E adesso? Cosa sarà rimasto?» mi domando all’improvviso come se finora mi fossi dimenticata di farmi questa domanda. Sospiro. Chiamo a raccolta tutto il coraggio che posso e lo chiedo: «C’è uno specchio?». Il cuore accelera il ritmo. Mi tocca rispolverare il vecchio mantra: «Va tutto bene, Luci. Tranquilla». Il Califfo si piazza in mezzo alle mie emozioni: «Se vuole lo specchio c’è, sì. Ma allora facciamo entrare anche la mamma, che dice? Così vede anche lei come deve fare i lavaggi…». «D’accordo, facciamola entrare.» Un minuto dopo Lella è accanto a me. Sento la sua commozione perché, dopo tutto questo tempo, per la prima volta rivede la mia faccia. E dev’essere parecchio cambiata da com’era la sera del 16 aprile. Altro sospiro: «Dai, datemi questo specchio». C’è un’altra persona lì dentro. Come il maleficio di una fiaba, lo specchio mi restituisce un’immagine nella quale non mi riconosco. Mi studio per un po’ di minuti in silenzio, qua e là vedo il colore della pelle un po’ più scuro, metto a fuoco le croste che avevo sentito poco prima sotto le dita e il dettaglio che noto più di tutti è il naso. «Manca un pezzo» penso, ma apro bocca sfumando il concetto: «Mi pare di vedere che questo naso non è un granché». Nessuno fiata. Dev’essere la mia bacchetta magica: si è mossa e qui si sono fermati tutti. Immobili. Ci sono parole sospese attorno a me. Sento addosso il peso delle sensazioni degli altri. Mia madre, il Califfo, l’infermiera: come se tutti i loro pensieri ruotassero in una sola girandola nella mia testa. Si aspettano una reazione, una frase, un commento. È un momento troppo importante per non meritare nemmeno una lacrima, una domanda, una parola… «Di’ qualcosa, Luci» scuoto il mio mutismo. «Be’, secondo me con la frangia starei meglio» è la prima frase che mi viene in mente. E la bacchetta magica spezza l’incantesimo. L’infermiera scoppia a ridere, il dottor Caleffi saluta e abbandona la stanza e io potrei scommettere su che cosa sta pensando mentre esce: «Lucia ha superato la prova». Me lo dice una didascalia che vedo solo io sulla sua testa, quella sì, nitida.

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Due maschere e la mano di un bambino Il viaggio di Lucia per riprendersi la vita

Le maschere sono due. La prima va indossata durante il giorno. È di silicone ed è tenuta ferma da due elastici neri: sopra Lucia può infilare gli occhiali ma non potrebbe mai mangiare. La seconda maschera, la «morbida», entra in gioco dopo cena e con quella Lucia ci dorme: è un mefisto, color carne, come quelli indossati dai poliziotti o dai carabinieri che hanno arrestato un mafioso e non devono farsi riconoscere. Tutto questo per almeno 20 ore al giorno: la pelle che sta guarendo è bianchissima, liscia, fragile. È una pelle da bambola, di aspetto mutevole e ancora incerto, in parte nuova e in parte scolpita da ustioni e cicatrici di cicatrici. Fino a oggi gli interventi al viso e alla mano destra sono stati 11.
Lucia Annibali ha 36 anni, compiuti il 18 settembre, già con questo nuovo aspetto. Il 16 aprile di un anno fa due albanesi assoldati da Luca Varani, coetaneo, avvocato civilista di Pesaro, le hanno cambiato il destino gettandole addosso dell’acido.
In Io ci sono, la mia storia di non amore (Rizzoli, da domani in edicola con il Corriere della Sera a 12,90 euro, in libreria a 15 euro), un libro di 272 pagine scritto con la giornalista del Corriere della Sera Giusi Fasano, Lucia racconta tutto quello che è capitato da allora. Ma va anche un po’ più in là: nel passato, per trovare le radici della storia d’amore che è diventata un tentato omicidio, e nel futuro, per provare a pensare cosa fare di bello e di buono della sua vita.
È un viaggio al centro del dolore costruito su due livelli. C’è il racconto dei fatti, fatti che sono anche scritti nelle carte del processo che ha portato Luca Varani alla condanna a vent’anni in primo grado. Definirlo ex fidanzato, anche se è vero, è fastidioso.
Il secondo codice è il più misterioso e inedito, perché è una tela sottilissima il cui ordìto sono i dettagli. Infinitesimali, squallidi, commoventi. Un dettaglio è, per esempio, il nuovo modo di misurare il tempo. Subito dopo il ricovero, e per il mese e mezzo a seguire, Lucia ha sempre e soltanto contato fino a tre, cioè la distanza di ore tra una applicazione di collirio e di crema e l’altra. Le avevano già detto che quasi certamente sarebbe rimasta cieca.
I grandi ustionati come Lucia non possono né piangere né ridere. Tante volte abbiamo letto o sentito dire che le lacrime «bruciano». Infatti è vero: sono salate e sembrano fuoco sulle cicatrici di innesti di pelle. Ma non si può neanche ridere se, come è accaduto a Lucia, la strada seguita dall’acido ha sciolto gli angoli della bocca, riducendo il diametro del suo sorriso. Lei lo sa bene e lo racconta per un solo motivo: dopo non molto tempo ha cercato di farlo. E poi ci è riuscita.
Le cure, il processo: la ricostruzione di un corpo e di una vita, la costruzione di una verità processuale. In mezzo deposizioni, interrogatori e un continuo andare e tornare dal Centro grandi ustionati di Parma. In Io ci sono è tutto descritto talmente tanto e talmente bene che fa soffrire. Dettagli, ancora dettagli. Come questa scheggia di vita: siamo in estate, Lucia è tornata ancora una volta per una operazione. Le palpebre devono essere reinnestate. Dovrà restare ferma nel letto per cinque giorni, con gli occhi cuciti. C’è un nuovo compagno di stanza, come sempre… «Resto sola finché nel letto accanto arriva un bambino che non ha nemmeno due anni. Si è ustionato con il caffè e siccome sua madre dorme qui con lui, gli infermieri hanno aggiunto un letto e gli spazi si sono molto ridotti. Praticamente ci si tocca. “Questo bimbo sta cercando di darti la mano” dice mia madre dopo averlo visto avvicinare il braccino più volte verso il mio letto. Allungo la mano sinistra verso di lui e aspetto. Ovviamente è un invito che non può ignorare. Sento le sue piccole dita accarezzare le mie e il linguaggio universale del gioco ci fa diventare amici in un minuto. Il gioco è questo: ogni tanto lui allunga la manina e mi tocca, io fingo di scappare dal suo contatto e lui ride per riprovarci un istante dopo e vedere, come direbbe Jannacci, l’effetto che fa».
A Lucia nessuno, tranne una volta durante una conferenza stampa, ha mai osato chiedere se intendesse perdonare l’uomo che l’ha sfigurata. Il che è strano, in genere è una delle curiosità più ricorrenti nei confronti di chi esce dalla cronaca nera ed entra nella nostra vita. «Non ne voglio parlare. Delle volte mi ha fatto pena, questo sì», è stata la risposta. Lei pensa che non si possa, che non abbia senso usare la categoria del perdono per chiudere la traiettoria innescata da un gesto «miserabile». Ma certo non è arbitrario o sbagliato leggere nella sua totale, inspiegabile assenza di odio l’esistenza e la forza della compassione. Ora davvero ogni maschera è caduta. Per tutti e per sempre.

Il Corriere della Sera 23.04.14