Alla vigilia dell’approdo in Parlamento del decreto lavoro, dopo qualche modifica migliorativa in commissione soprattutto per quanto riguarda i contratti a tempo determinato, siamo di fronte all’ennesimo dato shock sfornato dall’Istat, un milione e 130 mila famiglie vivono, meglio non vivono, senza alcun reddito da lavoro. Non è tanto il numero che colpisce chi conosce i dati sulla povertà, quanto la dinamica: +18% in un anno (tra 2012 e 2013) e addirittura + 56 % in due anni. Nessun Paese civile può ignorare dati di questa gravità. Il governo ha cominciato a muoversi nella giusta direzione scegliendo una precisa categoria, i lavoratori dipendenti ma sa bene che non può e non deve fermarsi a questi. Dopo un primo provvedimento utile a dare un po’ d’ossigeno a dieci milioni di lavoratori dipendenti a basso reddito e quindi alla domanda interna, ricomincia una difficile navigazione per superare molti altri scogli. Ci sono ancora più di una decina di milioni di cittadini che, per la loro condizione, meritano attenzione, tra cui i pensionati con meno di 1000 euro, i lavoratori dipendenti “esentati” che hanno salari minimi, le partite Iva individuali ed i precari che la crisi ha impoverito ancor più dei dipendenti, oltre ai milioni di disoccupati ed inattivi.
Di fronte a questi numeri – e alle immani sofferenze che sottendono – il compito del governo Renzi non è facile dopo quasi un decennio di recessione. Si sa bene che il peso delle sofferenze non è stato distribuito in modo uniforme dalla crisi, con i poveri e la classe media che hanno dovuto pagare il conto più salato. Nel Paese a più alta diseguaglianza d’Europa, dove il 10 % delle famiglie possiede il 50 % delle ricchezze e metà delle famiglie possiede poco o niente, è bene e giusto che tra i provvedimenti annunciati non siano mancati quelli ispirati ad un abbassamento dei tetti retributivi dei top manager pubblici e dei dirigenti dello Stato. Perciò hanno impressionato molto sfavorevolmente certe proteste, tra cui quelle di alcuni magistrati, che non hanno resistito alla tentazione di gridare alla “lesa maestà” piuttosto che accettare con dignità, anzi plaudire, provvedimenti di riequilibrio imposti da regole economiche oltre che morali. Senza andare al «denaro sterco del diavolo» caro a papa Francesco, basterebbe scorrere gli ultimi studi sulle cause della crisi, tra cui quelli del Fondo monetario internazionale, che hanno individuato nella “diseguaglianze eccessive” le principali cause della crisi dirompente.
La situazione drammatica del Paese, più che dai tassi di disoccupazione totale e giovanile, comunque alti, è descritta dal suo tasso di occupazione, di 10 punti inferiore all’Europa e di ben 20 punti inferiore al Nord Europa. Il tasso di disoccupazione è inficiato dalle procedure particolari di calcolo che spostano «un disoccupato che non ha cercato attivamente lavoro nella settimana precedente l’indagine» nella categoria degli «inattivi». È quello che succede da anni. Perciò il reale panorama economico-sociale è determinato dal tasso di occupazione, cioè la quota di occupati sulla popolazione in età da lavoro. È il dato che rende meglio la realtà. Due Paesi agli antipodi del Pil unitario, l’ultimo ed il primo, cioè Romania e Svezia, hanno tassi di disoccupazione quasi eguali intorno al 7 % ma tassi di occupazione distanti anni luce. In Romania, come in Italia, lavorano appena 55 cittadini su 100 in età da lavoro, in Svezia ne lavorano 75.
Che significano questi dati? Che l’Italia, per avere un livello di occupazione europeo dovrebbe avere ben 4 milioni di occupati in più e ben 8 in più per essere come gli svedesi (10 punti o 20 punti in meno, su 40 milioni di cittadini in età da lavoro). Sono vette difficili da raggiungere, ma in un decennio si potrebbero difendere, con accorte politiche industriali, i 5 milioni di occupati in agricoltura e industria manifatturiera e cercare di colmare il buco dei servizi, dove abbiamo 7 punti in meno dei Paesi industriali (il nostro terziario pesa il 68% contro il 75 % dei Paesi industriali), cioè recuperare almeno un paio di milioni di occupati che ci mancano nei settori in turismo e cultura, istruzione e ricerca, trasporti e logistica, servizi alle imprese e alle famiglie, senza contare salute e benessere. Speriamo che il governo, oltre agli 80 euro ad alcuni che ne hanno davvero bisogno, inizia a pensare sul serio anche agli altri.
L’Unità 22.04.14