I numeri non lasciano scampo. Il gap tra maschi e femmine sulle discipline tecnico-scientifiche nel nostro Paese è più alto del resto d’Europa. E a guardare i dati di una ricerca McKinsey-Valore D che viene presentata oggi a Roma nell’ambito di Nuvola Rosa, progetto promosso da Microsoft Italia, viene da pensare che per raggiungere la parità anche nel settore tecnologico, la strada sia davvero lunga. Le laureate in materie scientifiche sono il 9.9 per cento a fronte del 14.8 dei maschi. Una differenza che ci vede ancora una volta fanalino di coda, dopo Svezia e Finlandia. Ma anche Grecia e Portogallo.
Il rapporto «Occupazione-Istruzione-Educazione: le trappole nascoste nel percorso delle ragazze verso il lavoro» cerca però di andare oltre le statistiche e di analizzare le cause di questo divario. Come da tempo sottolinea anche la 27esima ora, blog dedicato alle questioni di genere de il Corriere della Sera , il gap deve essere fatto risalire all’infanzia. Già nelle scelte dei giochi le bambine iniziano inconsapevolmente a tracciare un solco che le separerà dai maschi per tutto il corso della loro vita. E la «colpa», a sorpresa, è delle mamme, che ricalcano gli stereotipi di genere vissuti durante la loro infanzia.
Se i papà trascorrono il tempo con i figli di entrambi i sessi facendo le stesse attività (disegno, giochi di movimento, videogiochi), il 52 delle mamme gioca con le figlie a fare i mestieri di casa mentre con i maschi disegna o fa giochi da tavola. Morale, come spiegava il sociologo Robert K. Merton già nel 1948, si tratta di una profezia che si auto avvera. Quegli stessi bambini, una volta diventati grandi, daranno per scontato che le femmine facciano i mestieri mentre i maschi costruiscono i ponti.
Passata l’infanzia, per le ragazze non va meglio. Anche il percorso di studi appare più accidentato. Se le pressioni sociali e familiari nella scelta della scuola/università si fanno sentire indifferentemente sia nel caso dei maschi sia delle femmine, le studentesse appaiono invece fortemente penalizzate quando la famiglia di origine sperimenta difficoltà finanziarie. Solo il 12 per cento dei maschi abbandona la scuola superiore a seguito di queste ragioni, a fronte del 25-27 per cento delle ragazze. Se poi in famiglia le risorse economiche sono limitate, più facilmente si punta ancora oggi sul figlio maschio rispetto alla figlia femmina (anziché sulle reali capacità e potenziale dell’uno o dell’altro). Finita l’università e il percorso di studi, la situazione peggiora ulteriormente. Già durante la prima esperienza di lavoro (stage o apprendistato che sia), se un compenso c’è, i ragazzi vengono retribuiti il doppio delle ragazze. Il che porta le donne ad essere più precarie ancora prima che si ponga il problema della conciliazione lavoro/famiglia. Il 51 per cento delle ragazze tra i 15 e 24 anni ha un contratto precario, rispetto al 40 dei maschi, incidenza che scende al 26 nella fascia d’età 25-34 anni, rimanendo tuttavia superiore di 11 punti percentuali rispetto ai maschi. La ricerca di un lavoro coerente con il proprio percorso di studi è tuttavia molto più ardua per le ragazze. A fronte di un 18 per cento di maschi che non ha trovato un impiego coerente con il proprio ambito di studi, la percentuale sale di oltre dieci punti nel caso delle femmine. La verità, seppur scomoda, è che gli indirizzi scolastici e universitari privilegiati dalle ragazze risultano essere spesso disallineati rispetto alle opportunità offerte dal mondo del lavoro.
Alcuni ambiti formativi, tradizionalmente ad alta intensità e presenza femminile, come quello letterario, linguistico, giuridico, chimico-farmaceutico, geo-biologico e dell’insegnamento, presentano tassi d’impiego più bassi, remunerazioni più contenute, e un gap salariale tra maschi e femmine più elevato. Altri, come il comparto medico-psicologico ed economico-statistico evidenziano un migliore equilibrio, mentre la formazione tecnico-scientifica appare decisamente sottovalutata nelle preferenze delle ragazze, nonostante offra maggiori possibilità di collocamento e migliori salari.
In sintesi, come spiega Roberta Marraccino, non c’è da sorprendersi se un contesto lavorativo già impreparato ad affrontare le sfide della neutralità di genere sin dalle prime fasi di inserimento in azienda, si riveli incapace di superare quelle barriere culturali e organizzative che ostacoleranno successivamente la crescita e la valorizzazione professionale delle donne che desiderano raggiungere mete professionali ambiziose.
La strada per uscirne? Gli input devono arrivare da famiglia, università e aziende. Dice Marraccino: «Il percorso delle ragazze verso il lavoro deve essere da una parte più consapevole e informato, dall’altra supportato dalle famiglie, che devono essere le prime ad agire con maggiore cognizione delle influenze socio-culturali avverse alle ragazze». Quindi autostima, capacità e competenze vanno costruite nel tempo in modo coerente, tenendo conto delle preferenze individuali delle ragazze ma indirizzandole verso quei percorsi formativi che ne valorizzino le attitudini e risultino anche appetibili dal punto di vista lavorativo. Ma non solo. Le aziende hanno l’obbligo di realizzare una cultura di neutralità di genere sin dall’ingresso nel mondo del lavoro. Un punto di vista confermato anche da Silvia Candiani, direttore Marketing & Operations di Microsoft Italia, che sottolinea: «In Italia i Neet — acronimo inglese per Not in education, employment or training — ovvero i giovani tra i 15 e i 29 anni che non sono iscritti a scuola né all’università, che non lavorano e che nemmeno seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale, sono ormai quasi 1 milione. Sapere che la maggior parte di questi è donna rende questo dato ancora più sconfortante. E lo dico da manager prima ancora che da donna. Ma non possiamo più permetterci di rinunciare al valore e alle potenzialità delle nostre ragazze» .
Marta Serafini