Succede di rado, ma succede. Che lo spirito di un’epoca si condensi in pochi versi, indissolubilmente legati a una melodia, per poi attraversare il tempo e farcene rivivere ogni volta l’attualità.
Quando abbiamo deciso di sperimentare un racconto televisivo dell’Italia che uscisse dal chiuso dei talk show, il titolo Fischia il vento è venuto naturale: una matrice in cui potevano ritrovarsi due casematte della cultura di sinistra come Feltrinelli e Repubblica, ma in cui soprattutto si ritrova il senso comune popolare di una democrazia che non dimentica di essere nata dalla Resistenza antifascista. Fischia il vento, più ancora di Bella ciao, è il canto per eccellenza della nostra Resistenza perché non la fa facile: ci inchioda a una dimensione tragica. Il nostro canto malinconico della Liberazione non può prescindere da Fischia il vento: memoria in bianco e nero di una guerra civile nella quale c’erano una ragione di civiltà contrapposta a un torto criminale.
Ancora oggi siamo chiamati a schierarci. D’accordo, è solo una canzone. Ma, come il vento, la senti arrivare gelida da lontano. Il fatto che sia una traduzione, e che la musica sia russa, l’arricchisce di gravità.
Fornisce la percezione di un accadimento più grande di noi, nel quale le brigate partigiane restituirono a un’Italia disonorata un ruolo nobile di protagonismo.
La canti anche da solo, ma pensandola in coro. Non è allegra, ma vibra. Esprime la fatica di una guerra dall’esito incerto, non la baldanza di una vittoria.
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“Venticinque aprile”, di ALBERTO CUSTODERO
BAMBINI PARTIGIANI imbracciarono le armi durante la Resistenza. La prova spunterebbe dagli archivi fotografici dell’Imperial War Museum di Londra. Si tratta di foto scattate da soldati angloamericani e donate molti anni dopo la fine della guerra al museo londinese. Alcune erano state segretate, forse per evitare un ritorno negativo di immagine sulla Liberazione. Lo scatto del sergente Loughlin (con il timbro “segreto”) nei pressi di San Marino il 26 settembre ‘44 ritrae, ad esempio, un bambino del quale viene citato anche il nome (Angelo Batelli). “ The boy is only 8 years old”, il ragazzo ha solo 8 anni. E, precisano gli inglesi, ha rischiato la vita per salvare la vita a molti soldati alleati. La sua attività bellica è descritta in una didascalia di poche righe. «Il piccolo Batelli ha disinnescato le bombe a mano che i tedeschi, acquartieratisi a casa sua, volevano usare contro la fanteria alleata». Altra foto. La scatta il 10 settembre ‘44, a Trani, il sergente Meyer. La didascalia descrive «un partigiano molto giovane, al quale è stato amputato un braccio»: suo il volto sorridente nell’immagine più piccola pubblicata in questa pagina. E ancora. Pizzoferrato, Abruzzo, 4 maggio ‘44: il sergente Fox immortala, accovacciato a terra col mitra impugnato, «un giovane guerrigliero italiano che ha risposto all’appello delle armi». Anche questa foto riporta il timbro secret, ed è quella qui accanto pubblicata più in grande. A Ravenna, il 24 febbraio ‘45, un ragazzino in uniforme inglese di circa dieci anni compare sorridente in uno scatto del sergente Currey, VIII Armata: «Il componente più giovane dei partigiani del Ravennate è originario della provincia di Napoli. Ha combattuto con i partigiani nelle montagne attorno a Firenze e in Romagna».
Gli storici confermano con alcuni distinguo come possibile la presenza di bambini, anche sotto i 14 anni, che avrebbero combattuto contro i nazifascisti. «Molti erano quelli coinvolti nella guerra partigiana», spiega Claudio Pavone, ex partigiano, 93 anni, il più rigoroso storico della Resistenza. Ma aggiunge: «Destando meno sospetti facevano cose che i grandi non potevano fare. In questo senso non parlerei di “bambini guerrieri o guerriglieri”. I bambini potevano essere utilizzati come staffette, o per eludere i controlli delle forze fasciste o naziste, ma restavano bambini». «Quando ci sono le rivolte di popolo che hanno come teatro dei combattimenti le strade — spiega Gabriella Gribaudi, ordinario di Storia all’università di Napoli — ci sono anche i bambini che partecipano. E muoiono, come settant’anni fa col coinvolgimento degli “scugnizzi” nelle “quattro giornate” di Napoli. E come succede ancora oggi in giro per il mondo: in occasione della “rivolta delle pietre” in Palestina, erano i bambini a scagliare sassi contro i soldati israeliani».
«Le foto del museo britannico della guerra — aggiunge lo storico Gianni Oliva — confermano che conflitti come quelli resistenziali coinvolgono inevitabilmente anche ragazzini in tenera età. In una insurrezione di popolo combattuta casa per casa, con connotazioni anche di guerra civile, salta il concetto d’età. Lo scontro coinvolge tutti. Compresi i più piccoli, sottoposti spesso a violenze inaudite, come l’essere costretti e vedere i morti giustiziati nelle piazze». Più scettico, invece, lo storico torinese Bruno Maida: «Dubito che bambini soldato abbiano preso le armi al fianco di partigiani. La mia impressione è che i piccoli in divisa ritratti nelle foto inglesi fossero magari orfani di guerra. O feriti, o mutilati, come il “tamburino sardo” del Risorgimento, e poi “adottati” come mascotte o per propaganda
durante la Liberazione».
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“Quando la guerra cancella i confini”, di MARCO REVELLI
NON CONOSCO casi di bambini “reclutati” nelle formazioni partigiane. Frequento gli archivi piemontesi, in particolare di “Giustizia e Libertà”, ho visto i ruolini con gli organici: giovani o giovanissimi molti, qualcuno anche sotto le classi d’età coinvolte dai bandi di reclutamento forzato della Repubblica sociale (la quale, al contrario, sfoggiava effettivamente le proprie mascotte in divisa).
Ma bambini no. Per una ragione molto semplice: che la guerra partigiana era massacrante.
Richiedeva una capacità di resistenza fisica incompatibile con l’infanzia. Il che non significa che i bambini potessero restare miracolosamente fuori da quella guerra.
Al contrario. Era, quella, una guerra che cancellava i confini tra civili e militari.
Tra giovani e anziani. Tra uomini e donne…
I rastrellamenti dei tedeschi e dei fascisti non facevano distinzioni, colpivano tutti.
Nelle baite bruciate, nelle borgate messe a ferro e fuoco, vivevano (e rischiavano) interi nuclei famigliari. Così come l’appoggio alla Resistenza poteva assumere molte forme: un po’ di cibo offerto, un servizio di staffetta attraverso le linee, un biglietto portato da un vallone all’altro, in questo caso sì, anche da bambini o bambine.
Niente di più lontano dai bambini soldato delle milizie di oggi che appartengono non solo a un altro secolo ma a un diverso universo di senso.
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“La canzone”, di EMILIO MARRESE
Fu scritta su un foglietto staccato da un ricettario medico. Quello del dottor Felice Cascione, via Asclepio Gandolfo 5 a Imperia. Una prescrizione per l’anima: “Soffia il vento, urla la bufera, scarpe rotte eppur bisogna agir / a conquistare la nostra (?) primavera in cui sorge il sol dell’Avvenire”, recitava la prima strofa a matita in calligrafia ordinata. La spedì dai monti liguri, dov’era salito partigiano dopo l’8 settembre del ’43, alla mamma Maria, maestra elementare. Che gliela fece riavere corretta e dattiloscritta: soffia era diventato fischia, agir era ardir , e la primavera non aveva più punto interrogativo, non era più nostra ma rossa . La prima volta venne intonata dalla brigata di Cascione, ventisei anni, ex campione di pallanuoto e “medico dei poveri”, davanti al portone della chiesa di San Michele a Curenna, borghetto del savonese, la sera della vigilia di Natale dopo la messa, davanti a un pentolone di castagne. Pochi giorni più tardi Cascione fu trucidato dai fascisti, mentre i suoi versi adottati dal vento continuarono a volare di bosco in bosco fino a diventare l’inno ufficiale della Resistenza. Prima ancora della più trasversale Bella ciao. Ognuno si masticò la sua versione: ardir può essere anche andar , e c’è chi aggiunge una strofa con falce e martello. Perché quelle parole sono già di tutti, sono fiorite per esserlo. Al punto di poter perlopiù ignorare, oggi come allora, chi ne
fosse veramente l’autore. «È una vera e propria arma contro i fascisti. Li fa impazzire, mi dicono, solo a sentirla. Se la cantasse un neonato l’ammazzerebbero col cannone», dice il partigiano Johnny nel romanzo di Beppe Fenoglio.
La storia di Felice Cascione, u Megu, e del suo canto ribelle è stata ricostruita da Donatella Alfonso in Fischia il vento ( Castelvecchi, 140 pagine, 16,50 euro). Bello e carismatico come dev’essere un eroe, Felice rimane orfano a cinque mesi di Giobatta, commerciante d’olio, ma la madre riesce a farlo studiare. Nelle poco limpide acque marine davanti al porto diventa centrovasca e capitano del Guf Imperia, che scala tra il ‘37 e il ‘39 dalla serie C alla A del campionato di pallanuoto. In quella stessa estate arriva secondo ai Mondiali con la nazionale universitaria a Vienna, tre giorni prima dell’invasione della Polonia. Lascia Genova per la Sapienza a Roma (dove si ritrova in squadra il portiere Massimo Girotti, non ancora divo del cinema), e infine si laurea in Medicina a Bologna nel ’42, al termine della sua fuga dalla burocrazia fascista che lo ostacolava negli esami e nelle graduatorie per un posto alla Casa dello Studente. Il giovane Felice era nel mirino per le sue frequentazioni, in particolare quella di Giacomo Castagneto detto Mumuccio che lo aveva introdotto nel partito comunista clandestino, e presentato a Natta e Pajetta. Il dottorino diventa subito popolare a Oneglia perché non fa pagare né medicine né visite a chi non può. In agosto si fa venti giorni di prigione per adunata sediziosa e, dopo l’armistizio, si rifugia sui monti coi compagni a capo di un manipolo che arriverà presto a contare una cinquantina di uomini. Tra loro c’è Giacomo Sibilla detto Ivan, operaio che ha fatto la campagna di Russia e porta una chitarra a tracolla accanto al mitra. È lui che la sera, nei casolari diroccati, strimpella questa Katiuscia , la celebre melodia popolare russa. Il testo del poeta Isakovskij parlerebbe di meli e peri in fiori, ma già i soldati italiani nella steppa l’avevano storpiato con riferimenti al vento e alle loro scarpe di cartone. Si tratta di metterla giù meglio, per quest’altra battaglia. Ci pensa u Megu.
Le camicie nere stanano e giustiziano Felice il 27 gennaio 1944, lasciandone il corpo su un pendio. «Ma non fu vano il tuo sangue, Cascione, primo, più generoso e più valoroso di tutti i partigiani. Il tuo nome è leggendario» scriverà, un anno dopo, su La voce della democrazia, un altro giovane partigiano noto come Santiago. La sua firma è Italo Calvino.
La Repubblica 20.04.14