Il problema più grave dell’Italia sono le diseguaglianze che l’affliggono fin dalla costituzione dello Stato unitario. Ma a quelle classiche – tra Nord e Sud, tra «padroni» e «operai» – se ne sono aggiunte altre, non meno gravi e profonde: ad esempio quella tra nativi e immigrati.
Tutte sono state poi accentuate e incancrenite ulteriormente dalla crisi che ci travaglia ormai da anni, lacerando gli equilibri sociali e spingendo gli individui a rinserrarsi ciascuno nel proprio «particulare» per cercare di difendersi di fronte all’incrinarsi delle forme tradizionali della solidarietà. Ma con risultati assai diversi, a seconda del ceto – o della «corporazione» – alla quale si appartiene. Nella crisi ci sono, infatti, ceti e classi sociali che precipitano in una condizione di indigenza sempre più grave, mentre altri non solo riescono a difendersi ma, chiudendosi in logiche strettamente corporative, tentano di conservare l’esistente e riescono a incrementare il proprio potere e ad aumentare la propria ricchezza. Del resto, non è una novità: è sempre accaduto così – e continua ad accadere – quando viene meno un principio di direzione generale della società e gli «istinti animali» possono espandersi senza alcun controllo. Accade così, in altre parole, quando viene meno la capacità della politica di riuscire ad individuare, nelle differenze, gli interessi generali. In questa condizione le singole corporazioni affermano il proprio dominio, generando un processo di feudalizzazione della società nella quale, secondo dinamiche darwiniane, i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi o i protetti sempre più ricchi e più garantiti. È la situazione in cui ci troviamo oggi.
Reagire e cambiare prospettiva non è semplice, come vediamo giorno dopo giorno: significa, infatti, scontrarsi con interessi costituiti, fortemente incrostati e pronti a diventare perfino minacciosi se i loro privilegi sono toccati o anche solamente sfiorati. In Italia vuol dire scontrarsi con la eredità più grave del berlusconismo, che ha demolito ogni spirito di solidarietà sociale ed ha eccitato gli «spiriti animali», individuati come il motore principale del progresso umano. In questa situazione ci vogliono tempo, forza e visione per riuscire a imboccare una nuova strada.
Ma le battaglie, per essere combattute, hanno bisogno di essere iniziate, nei modi possibili e con i mezzi disponibili. Ora, qualunque sia il giudizio sull’attuale presidente del Consiglio, con i provvedimenti di ieri questa lotta è stata avviata in modo positivo. Certo, sono evidenti i limiti e le contraddizioni di alcune decisioni: non si capisce bene quale peso ricada sugli enti locali, si tratta poi, almeno per ora, di un riformismo «dall’alto», e non è mai positivo «governare in nome del popolo ma senza il popolo». Alcuni inoltre hanno detto che sono iniziative elettorali, come se facessero una grande scoperta. Certo, in campo ci sono anche interessi elettorali, tanto più evidenti ed urgenti, se si tiene conto del modo con cui questo governo è nato, e della sua stessa composizione. In democrazia gli interessi elettorali sono un fatto normale. Il punto discriminante è che mentre altri, per motivi elettorali, hanno varato l’Ici, con tutte le conseguenze che si sanno, il premier attuale ha guardato dalla parte opposta, mettendo soldi nella busta paga di chi guadagna meno. Non capirlo o sottovalutarlo, sarebbe sciocco, così come sarebbe assai miope non capire il valore di una scelta come questa che, al di là delle chiacchiere, ribadisce il valore dell’eguaglianza come principio essenziale per una società democratica moderna. Si è cercato cioè di guardare all’interesse generale del paese, mettendosi dalla parte degli «ultimi». Colpiscono perciò le reazioni dell’Associazione dei magistrati – i quali secondo il premier devono restare nel «limite» dei 240 mila euro lordi di stipendio annuo, 20 mila al mese – e delle banche per i «sacrifici» che sono chiamati a fare. Eppure stanno sotto gli occhi di tutti le condizioni di indigenza e di tendenziale o effettiva povertà di larghe fasce del paese. Sono clamorose le diseguaglianze che le enormi differenze di stipendio accentuano fino alla intollerabilità. E non è un caso se su di esse si è soffermato ieri il predicatore della Casa apostolica, padre Raniero Cantalamessa, con parole che andrebbero severamente meditate. E del resto, anche Papa Francesco è già intervenuto a più riprese su questo punto decisivo.
Ma il problema è delicato e vorrei perciò essere chiaro: qui non è in questione l’autonomia dei magistrati che è un bene supremo per tutti in una democrazia rappresentativa, almeno dai tempi di Montesquieu. Né si tratta di una persecuzione contro le banche. Il problema è un altro, e consiste nella necessità di ricostituire nel nostro paese forme elementari di solidarietà sociale, di comune appartenenza, di identità nazionale collettiva. Dobbiamo avviare la ricostruzione della Nazione e della nostra democrazia. Ma questo non è possibile senza affrontare il nodo delle diseguaglianze e senza confrontarsi con i problemi quotidiani degli «ultimi», cercando di chiudere finalmente la stagione del berlusconismo . Se vogliamo rimetterci in cammino occorre guardare «dal basso». E per questo ognuno deve fare la propria parte, senza accampare pretesti ideologici per coprire antichi privilegi.
Occorre perciò demolire la forza, e il potere di interdizione, delle corporazioni che hanno intralciato lo sviluppo del nostro paese estendendo ulteriormente la sfera del loro dominio negli ultimi venti anni. È una battaglia che si deve accompagnare a quella contro la burocrazia, ma con una differenza di fondo: la burocrazia costituisce una struttura dello stato moderno e proprio per questo è capace addirittura di attraversare regimi politici diversi, restando se stessa: l’amministrazione propriamente detta dello Stato – scrive Tocqueville – è in qualche modo al di sopra del sovrano, un corpo particolare che ha le sue abitudini speciali, le sue regole, i suoi funzionari che non appartengono che all’amministrazione stessa. È quindi una forza importante, da regolare e contenere quando, come accade oggi, invade campi non suoi pretendendo di sostituirsi alla politica in nome di un sapere tecnico, oggettivo, che come tale non esiste. L’idea corporativa è invece espressione di interessi particolari, «privati», estranei alla dimensione «pubblica», anche se viene difesa in nome dell’interesse della Nazione. Per questo va combattuta in modo intransigente. Naturalmente se si vuole ricostituire, su nuove basi, un nuovo «vincolo» sociale e civile, una nuova identità della Nazione.
L’Unità 20.04.14