Per valutare gli effetti che la manovra annunciata ieri da Matteo Renzi avrà sul rilancio dell’economia del Paese, occorrerà – naturalmente – aspettare mesi, forse molti mesi; per conoscerne, invece, l’impatto politico – e persino psicologico – basterà attendere i sondaggi elettorali della prossima settimana e poi, soprattutto, il voto europeo del 25 maggio. Che il più giovane premier della storia repubblicana abbia guardato più al secondo (le elezioni) che ai primi (gli effetti economici), è l’obiezione fondamentale che le opposizioni stanno muovendo alla sua manovra in queste ore. È possibile che abbiano ragione: ma è assai riduttivo – e perfino fuorviante – chiudere la faccenda così.
Gli avversari del premier-segretario (e non solo loro, in verità) sono soliti definire Renzi un «prodotto politico» a mezza via tra Berlusconi e Grillo, per sottolineare i tratti un po’ populisti e un po’ demagogici che – a loro giudizio – ne contraddistinguono il modo di far politica. A parte l’ovvia considerazione – che pure dovrebbe far riflettere – che il paragone guarda a due dei tre leader più votati nel Paese (il terzo è appunto Renzi), quel che convince
sempre meno – in una società profondamente in crisi – è quella sorta di snobismo, quando non addirittura di sprezzo, che sembra esser riservata a chi pone orecchio alle richieste, al malessere e a ciò che si muove nel ventre molle di quella che viene solitamente definita, appunto, società civile.
Naturalmente c’è modo e modo di interpretare quel malessere e quelle richieste: ed è appunto questa la prova alla quale è atteso, nei prossimi mesi, Matteo Renzi. Eppure, non cogliere il fatto che proprio la distanza da quelle aspettative e da quella rabbia sia uno degli elementi che ha prima determinato il distacco di milioni di cittadini dalla politica e poi offerto propellente per il boom di Beppe Grillo e del suo movimento, è prova di superficialità: quando non, addirittura, di irresponsabilità.
Molte delle misure annunciate dal premier nelle settimane passate (e confermate ieri) vanno precisamente in quella direzione. Si tratta di scelte che sono – nella maggior parte dei casi – economicamente poco incidenti, ma che possono avere un salutare effetto psicologico (e non solo) presso quanti – e si tratta di fasce assai ampie della società – avevano del tutto perso la speranza, la fiducia circa il fatto che una classe politica chiusa nella sua cittadella fosse in grado (e avesse voglia) di prestare ascolto alle loro richieste.
Lasciamo perdere gli 80 euro in busta paga, iniziativa che non ha bisogno di grandi commenti e che era la vera – perché più difficile e costosa – scommessa del premier. Parliamo del resto. La vendita delle auto blu (diventate negli anni il simbolo della casta): «Solo cinque per ministero – ha spiegato Renzi – e i sottosegretari andranno a piedi». Il tetto agli stipendi dei manager pubblici (i detestati «papaveri di Stato»). La riduzione dei compensi alle sfere più alte della magistratura. Il colpo alle banche, e in qualche misura ai giornali. Le spese di tutti i ministeri consultabili on line. La revisione del programma per gli F35. La riduzione da 8 mila a mille delle aziende pubbliche locali. E, prima ancora, un Senato non elettivo e non costoso; l’avvio dell’abolizione delle Province e la cancellazione del Cnel.
A guardare tali decisioni da un certo punto di vista – un punto di vista che non è solo delle opposizioni politiche – le si potrebbero definire senza ombra di dubbio demagogiche e populiste; ad osservarle da un altro, invece, le si possono considerare non solo una mannaia su sprechi e privilegi non più sostenibili, ma il risultato – il prodotto – di una «politica di ascolto»: di ascolto – appunto – di un distacco e di un malessere capaci, a lungo andare, di minare le basi, la sostanza e la credibilità di qualunque democrazia.
Tutto ciò, naturalmente, potrebbe portare nuovi consensi a Matteo Renzi, al suo governo ed al partito che dirige – il Pd – in vista delle ormai vicine elezioni di maggio. Che ciò accada è possibile. Ma la domanda è: la politica non è anche questo? Non è forse aspetto fondamentale del lavoro di un qualunque amministratore – a qualunque livello – esaminare i problemi, ascoltare le richieste che salgono dalla società e poi scegliere e decidere? Se le scelte sono sbagliate, quell’amministratore sarà punito; se si riveleranno giuste, ne riceverà popolarità e consenso. È quel che Renzi spera, naturalmente, guardando alle europee di maggio. Tra un mese o poco più saprà – e sapremo – cos’è rimasto di quella speranza…
La Stampa 19.04.14