Non può meravigliare che la riforma della norma punitiva dello scambio politico-mafioso sia stata accolta con favore dall’Associazione nazionale magistrati e da molti dei magistrati impegnati in prima linea nel contrasto alle cosche; e tra questi dal Procuratore nazionale antimafia Franco Roberti. Era una riforma attesa da trent’anni.
Era attesa da così tanto perché sin dalla sua emanazione il testo dell’art. 416 ter del codice penale è stato oggetto di critiche di principio, poiché individuava e puniva una condotta assai poco ricorrente nella realtà degli intrecci tra politica e mafia.
Si sa che le cosche hanno forti disponibilità di denaro, frutto dei traffici illeciti in cui sono impegnate, sicché è più logico che scambino la promessa dell’appoggio elettorale non già con denaro, di cui non hanno bisogno, ma con concessioni, autorizzazioni e appalti, che consentono loro di acquisire anche in modo indiretto il controllo di ulteriori attività economiche, in cui riciclare le liquidità, di cui sono già abbondantemente in possesso.
I difetti di stesura della norma hanno trovato preciso riscontro nella trentennale vicenda della sua applicazione. In questa, mentre l’ipotesi tipica (scambio di denaro contro promessa di voto) è stata di rado individuata, da un lato i tentativi di una sua applicazione estensiva non hanno avuto successo, dall’altro ad esiti problematici hanno condotto quelli di utilizzare il concorso esterno all’associazione mafiosa quale rimedio alle lacune della previsione dell’art. 416 ter. Ovviamente anche il nuovo testo della norma, come ogni prodotto dell’umano intelletto, è perfettibile, come su queste colonne ha giustamente osservato Claudia Fusani. È ben dubbio però che un affinamento della norma possa utilmente consistere in un ulteriore ampliamento della sua previsione, come avveniva nel testo anteriormente approvato dal Senato, strenuamente difeso dai senatori pentastellati con i toni consueti di una sgradevole gazzarra elettoralistica.
Come sottolineato tra gli altri dal gip di Palermo Morosini, il testo anteriore conteneva formule abbastanza sfuggenti, contrarie al principio di tassatività e che ne avrebbero reso ancora una volta incerta e problematica l’applicazione concreta. Più articolate, ma comunque non del tutto condivisibili, le critiche che sono venute da voci autorevoli come quelle di Gratteri e Emiliano, che hanno ritenuto non opportuna la innovativa previsione per lo scambio elettorale politico-mafioso di una pena edittale più mite di quella prevista per i partecipi all’associazione mafiosa e per coloro che alle fortune di questa concorrono all’esterno.
Si tratta però di ipotesi differenti, in cui la diversità della sanzione obbedisce al criterio di gradualità della pena.
Il quadro ordinamentale complessivo determinato dalla riforma consente, infatti, citando ancora Morosini, di individuare una piramide di reati caratterizzati da una diversa intensità del rapporto illecito tra il politico e i clan e che vede al suo vertice il 416 bis e poi a scalare il concorso esterno e il voto di scambio con pene edittali, che rispettano una razionale gradualità. E tuttavia si tratta pur sempre di ipotesi contigue, di cui ognuna costituisce il confine dell’altra; sicché è in tale contiguità la fonte di un agevole rimedio alla possibilità che comportamenti più gravi non ricevano una sanzione adeguata Penso in particolare alla patologia cui ha fatto acutamente riferimento Michele Emiliano, e cioè quella di un sindaco che, fattosi eleggere con i voti mafiosi, compromette la libertà di una intera comunità cittadina, impegnandosi nel governarla a perseguire non più il bene comune, ma gli interessi dei clan. A chi scrive però sembra chiaro che un fenomeno di questa intensità esorbita dallo scambio elettorale politico-mafioso, perché nel momento in cui una intera amministrazione cittadina si pone al servizio di una cosca, la ipotesi del concorso esterno alla associazione mafiosa risulta pienamente verificata e sarà quindi suscettibile di essere sanzionata con pene adeguate alla sua gravità.
L’Unità 19.04.14