«Cocò, chi?». In piazza alzano il mento al cielo. Il tabaccaio si rintana in negozio. Le mamme scappano via, trascinandosi dietro figli e sacchetti. Non è cosa. Non sono domande. Non ci sono segni di lutto. Niente. Neppure in contrada Fiego, a due chilometri dal centro storico, dove si è compiuto il massacro. C’è soltanto una grande macchia scura di asfalto carbonizzato e un fiore giallo di plastica, appoggiato sul moncherino del radiatore di una Punto liquefatta. Tutto quello che resta.
Tre mesi dopo, ancora non conosciamo gli assassini di Nicolas Campolongo detto Cocò. Era un bambino di tre anni, viveva in questo paese in mezzo ai grandi. Però adesso sappiamo con certezza perché è stato ucciso. L’hanno ammazzato per farci «spagnare», come dicono qui. Per farci avere paura. A Cocò hanno sparato in testa. Come a suo nonno Giuseppe Iannicelli, come alla fidanzata di suo nonno Ibissa Tous. Giustiziati e bruciati dentro una macchina, come i mafiosi fanno con i loro peggiori nemici. «Lo stupore sarebbe una reazione ingenua», dice il pm Vincenzo Luberto, uno dei tre magistrati titolari dell’inchiesta. «Le violenze non sono mai inspiegabili. Non c’è niente di casuale. La ’ndrangheta, quando è giovane, ha bisogno di terrore per guadagnare credibilità, la carica di intimidazione è centrale. Lavora come un’azienda: se l’idraulico usa la chiave inglese, il mafioso si serve della paura. L’omicidio di un bambino è un moltiplicatore di paura». Ecco perché hanno ammazzato Cocò. Un ottimo lavoro, bisogna ammetterlo.
Cassano allo Ionio è un posto spaventoso. Perché la paura è un contagio. E se tu entri dentro un ristorante armato di una domanda e il ristoratore corre in cucina imprecando e supplicando, per favore, di non nominare il suo locale e neppure il nome di quel bambino, è ovvio che alla fine ti spagni. Tutti ci spagniamo qui. È una parola che deriva dall’epoca degli aragonesi, che usavano la sciabola come strumento di persuasione. «Voi giornalisti avete sempre fretta – dice ancora il pm Luberto -, ma per capire Cassano dovreste piantare le tende in piazza per un mese. Dovreste ricordarvi che qui è già stato ammazzato un altro bambino. Ammesso che a qualcuno importi qualcosa di questo pezzo di Italia».
La scuola elementare di Cassano è chiusa per rischio crolli. L’unico ospedale della zona è una clinica convenzionata. Arriva a fatica il segnale Rai. Tutto avviene lontano dal mondo. Spesso badanti marocchine si trasformano in fidanzate a suon di botte. Può capitare di fare figli sia con la moglie sia con la nuora all’interno dello stesso nucleo famigliare, e tutti restano insieme, sotto lo stesso tetto, in piccole case con televisioni giganti e poltrone per massaggi a sette velocità. Persino il parroco don Silvio Renne non si fa problemi a mostrare la sua insofferenza: «Ancora Cocò? È una storia chiusa. Abbiamo fatto il funerale. Io non sono un investigatore. Non spetta a me dire chi è stato. E poi è ancora tutto da dimostrare se c’entra la droga o la ‘ndrangheta…». Che è un po’ come negare che adesso è notte fonda.
La madre di Cocò si chiama Antonia Iannicelli, è agli arresti domiciliari per spaccio, in un convento lontano da qui. Il padre di Cocò si chiama Nicola Campolongo ed è in carcere per aver ammazzato il tabaccaio di Lauropoli, Giuseppe Cirigliano, durante una rapina a mano armata. Il nonno di Cocò era, appunto, Giuseppe Iannicelli detto Peppe, 52 anni, già arrestato per traffico di sostanze stupefacenti. Lo zio Tommaso Iannicelli detto «il calciatore», ritenuto anello di collegamento fra le cosche locali e il clan degli zingari, è noto per aver pronunciato questa frase in un’intercettazione: «Portami l’arma, fra tre giorni ammazziamo Luberto». Intenzioni confermate, anche in successive, conversazioni: «Non abbiamo potuto agire perché pioveva, lui era sotto casa come un coglione». Riferito al magistrato. Che in effetti, quel giorno, era sotto casa in attesa della scorta.
Questo è il contesto. Qui a giugno verrà in visita Papa Francesco. Entriamo a casa dei parenti di Cocò, nella parte vecchia e umida del paese. Stanno preparando il pranzo domenicale: agnolotti al sugo, bistecche e patatine. «Questi carabinieri sempre con noi ce l’hanno», dicono. «Sempre droga, sempre perquisizioni. Questa non è giustizia». Il capofamiglia si chiama anche lui Tommaso Iannicelli, ha una grossa catena d’oro al collo e sul braccio tatuata una frase in dialetto calabrese: «Chi sbaglia, non merita perdono». Tommaso Iannicelli, dice: «Quelli che hanno sparato a Cocò non sono cristiani, sono talebani». La ’ndrangheta? «Non c’entra. Dovremmo farla noi», dicono scoppiando in una risata fragorosa. La madre di Cocò ci ha scritto una lettera dal convento: «Non ho la minima idea di chi possa essere stato. Se la giustizia esistesse, riuscirebbe a trovare gli esseri che hanno commesso quel gesto. Ma io nella giustizia non credo». Qui si crede solo alla paura.
Su quella macchina carbonizzata in borgata Fiego, c’era anche la baby-sitter di Cocò con tatuato sul braccio «Peppe Iannicelli è il mio uomo». L’avevano fatta sposare con un prestanome, in modo che potesse avere il permesso di soggiorno. Era incinta al quinto mese. E quindi, ora si può dire, anche il conto dei morti bambini va aggiornato. I resti di Ibissa Tous sono chiusi in una cella frigorifera. Nessun parente ha ancora fornito il Dna per l’identificazione.
Cassano allo Ionio, visto da lontano, potrebbe sembrare un vecchio paese incastonato sotto la montagna, nella Calabria interna, fra Cosenza e Sibari. Placido. Senti abbaiare i cani, ti commuovi per quanto sono dolci le colline. Pensi a Cocò qui davanti, con la lattina di Fanta in mano e il suo cane maculato alla catena. Ma è uno dei posti a più alta concentrazione criminale d’Italia. Per questo nessuno piange un bambino di tre anni. Perché succede di morire ammazzati. Come era successo al sedicenne Carmine Pepe, freddato a colpi di kalashnikov il 3 ottobre 2002. Sbagliando, lo avevano ritenuto coinvolto – in qualità di vedetta – in un agguato con altri due morti ammazzati. Faide. Affari. Paura da incutere. Paura da riscuotere. E questa massima, quasi come un epitaffio: morto il cane, morta la rabbia. Ha ragione il pm Luberto: abbiamo sempre dimenticato questo pezzo di Italia. Come per l’operazione «Harem»: 90 donne fatte arrivare qui dall’Albania, violentate, massacrate, schiavizzate e mandate a prostituirsi. Neanche una riga. Neanche un Tg. Come per Cocò. Saluti, baci e sentite condoglianze.
La Stampa 19.04.14