Con le sue recenti dichiarazioni il presidente del Consiglio ha riaperto con toni molto forti il problema della burocrazia, preannunciando, in questo campo, una lotta «violenta». Ha fatto bene a farlo, anche se è possibile non condividere i suoi toni, perché si tratta di un problema centrale per la nostra democrazia da molti punti di vista. Anzitutto esso riguarda i rapporti tra politica e amministrazione: se la burocrazia prevale, vuol dire che la democrazia è in una situazione di crisi. E che la politica non è più in grado di svolgere il suo compito specifico, che è quello di dirigere la Nazione, non di svolgere una funzione subalterna. Un problema che ha sollecitato a più riprese l’attenzione dei teorici della politica e della democrazia. Max Weber, un pensatore che si è interrogato con acutezza e profondità sui destini della democrazia nel mondo contemporaneo, ha individuato nel prevalere della burocrazia uno degli elementi di fondo della crisi della Germania bismarckiana. Già prima di lui, un grande storico come Theodor Mommsen, nel suo Testamento, si era espresso in termini durissimi contro la germania bismarckiana e guglielmina che non gli aveva consentito di essere, come avrebbe voluto, un animal politicum. Il problema è dunque grave, se è diventato da tempo materia di riflessione da parte dei classici, perché, al fondo, concerne la funzione – l’autonomia – della politica come «potenza» in grado di assumersi la responsabilità di dirigere una Nazione, e di riuscire effettivamente a farlo. Da questo punto di vista non sorprende che il presidente del Consiglio attuale abbia posto con tale durezza il problema perché il tratto più specifico della sua «presa del potere» è rappresentato dalla riaffermazione – del resto esplicitamente dichiarata – del primato della politica, con una liquidazione definitiva della stagione dei «tecnici», cioè la delega del potere alla burocrazia, alla amministrazione. Programma, e obiettivo, che non si può non condividere.
Ma se questo accade, vuol dire che c’è stato, oppure è ancora in atto, una crisi della politica e, quindi, della democrazia. L’amministrazione, la burocrazia riempiono il vuoto che si apre quando la politica non è più in grado di svolgere il suo compito, ed è ridotta a una funzione caudataria, subalterna. Condurre una lotta «violenta» contro la burocrazia si intreccia, anzi si identifica quindi con un lavoro di ricostruzione della politica e di conseguenza, della democrazia. E questo in Italia significa fare i conti fino in fondo con il ventennio berlusconiano che, sul piano storico, coincide, morfologicamente, con un progressivo svuotamento della politica, sia a destra che a sinistra, e con l’affermazione di poteri «burocratici» che, senza alcun controllo politico o parlamentare, hanno feudalizzato lo Stato generando un ceto di nuovi mandarini refrattari ad ogni regola e pronti addirittura a diventare minacciosi, se i loro privilegi vengono messi in discussione.
La questione aperta dal presidente del Consiglio è dunque di prima grandezza coincidendo, senza mezzi termini, con la questione democratica. Ma non può essere risolta limitandosi a liquidare il ceto dei boiardi berlusconiani o affidando ad alcune donne la presidenza di enti prestigiosi.
Certo, sono segnali importanti anzitutto sul piano simbolico, specie in una fase elettorale come questa, alla quale il premier affida un rilievo essenziale anche per la sorte del suo governo, fino al punto di entrare in tensione con l’Europa sulla questione del pareggio del bilancio. E sono scelte rilevanti anche per la dislocazione dei poteri negli enti pubblici – e nella Nazione – che esse comportano.
Ma sono segnali e scelte che rimangano alla superficie, se non affrontano, alle radici, il problema nel nostro Paese della funzione della politica e della crisi della democrazia rappresentativa. Se questo non viene fatto, o si fanno scelte strategiche sbagliate, il potere della burocrazia resta intatto e si ripropone in forme diverse dal passato, ma altrettanto forte e tenaci.
Cerco di spiegarmi. Il presidente del Consiglio si sta impegnando al massimo nella campagna elettorale europea per un motivo assai chiaro. Vuole essere leader della Nazione, non solo segretario del Pd, e vuole per questo avere una investitura popolare: quella che, presumibilmente avrebbe avuto se si fosse andati alle elezioni politiche anticipate. Per molti motivi, non ha potuto farlo e ha dovuto bruciare le tappe liquidando il governo di Enrico Letta in stato, peraltro, comatoso. Si capisce questa esigenza. Sbaglierebbe però a mio giudizio, se «traducesse » questa esigenza nei termini della democrazia diretta e interpretasse – come è avvenuto con le primarie – un voto a lui favorevole come una investitura del popolo alla sua persona e alla sua politica, con una conseguente subordinazione al potere esecutivo degli altri poterti repubblicani. Insomma, sbaglierebbe se pensasse di risolvere la crisi, e a fondare il suo potere, in termini (per capirsi) di carismaticitá. Non è questa, a mio giudizio, la strada per uscire dalla crisi della sovranità moderna e della democrazia rappresentativa e per contrastare il dominio della burocrazia.
Come ci è stato spiegato molto tempo fa, il potere carismatico, imperniato sul rapporto diretto tra leader e popolo, finisce appena «perde quella base puramente personale e quel carattere di fede nettamente emozionale che lo distingue dal vincolo alla tradizione della vita quotidiana ». È forte e, al tempo stesso, precario; a differenza della burocrazia che è invece solida, imperniata sul principio della carriera e dell’avanzamento, compreso quello dello stipendio; ed è sempre pronta a riaffermare il suo inesauribile potere quando il leader cade e si spezza il suo rapporto con il popolo.
Il premier fa dunque bene, ne sono persuaso, a inaugurare una lotta «violenta» contro la burocrazia: è una questione vitale per la nostra democrazia. A patto di inserirla in un programma organico di riaffermazione del primato della politica e di radicale riforma della nostra democrazia rappresentativa. Un programma impegnativo, mene rendo conto. Ma come dicevano i latini, hic Rodhus, hic salta.
L’Unità 18.04.14