A una legge che era stata definita indispensabile per salvare l’Italia ora si fa una deroga. Il cliché della sciatteria nazionale incombe; in Germania qualcuno già strilla. Ma il rinvio del pareggio di bilancio approvato ieri in Senato è una faccenda complessa, da considerare a mente fredda. Innanzitutto, è di misura modesta; per il 2014, equivale a circa 5 miliardi di euro.
Il governo Renzi ha chiesto alle Camere di autorizzare una trasgressione lieve alle regole europee (il calendario di risanamento strutturale del bilancio), dopo aver scartato la trasgressione grave (il limite del 3% al deficit). Ci sono buone speranze che la Commissione europea non lo sanzioni; l’altra scelta, oltre a una punizione severa, rischiava rapidi effetti di sfiducia nell’Italia.
Ugualmente il nuovo governo francese, dopo essersi baloccato con l’idea dei «pugni sul tavolo», accantona la trasgressione grave. Perfino il ministro Arnaud Montebourg, capo dell’ala massimalista, ora dichiara che la Francia rispetterà senz’altro i suoi impegni. C’è una scelta simile tra Parigi e Roma, cercare qualche spazio in più evitando lo scontro con Berlino.
Occorre tornare in breve all’inizio, per chiarire. Nel panico della crisi dell’euro, due anni fa, il nostro precedente Parlamento approvò (anche con i voti di chi ora si defila, Forza Italia da una parte, la minoranza Pd dall’altra) una modifica della Costituzione indicata per brevità come «pareggio di bilancio».
In realtà il nuovo testo della Carta dice «equilibrio», concetto più vago di «pareggio». Che significa? La legge applicativa, approvata sempre dalla maggioranza Monti nel dicembre 2012, chiarisce che l’«equilibrio» consiste nel rispettare le regole fissate in sede europea. Queste, già allentate dal 2012 ad oggi, imponevano tappe per arrivare a un «pareggio strutturale» nel 2015.
Il «pareggio strutturale» non è un dato ufficiale della contabilità: risulta da calcoli alla portata di pochi tecnici. Per spostare il traguardo al 2016 ora, con la nuova normativa costituzionale, non bastano i soliti negoziati tra Commissione europea e governi. Occorre prima un voto del Parlamento. Già era in traiettoria per chiederlo, se fosse durato, il governo Letta.
Matteo Renzi e Piercarlo Padoan hanno chiesto la deroga in nome di una manovra più ampia: gli sgravi fiscali subito, maggiori tagli di spesa, in seguito riforme strutturali importanti. Al di là dei loro programmi, le regole europee stabilite nella fase acuta della crisi presentano problemi obiettivi di applicazione, per molti Paesi.
Non si tratta della bufala dei 50 miliardi di euro di nuovi tagli che il «Fiscal Compact» imporrebbe all’Italia ogni anno. L’ha ripetuta ieri Silvio Berlusconi, ci crede anche qualcuno nella maggioranza. Ma non ha fondamento; il Tesoro calcola che la regola sarà rispettata se si riusciranno a fare 11 miliardi di privatizzazioni all’anno in 3 anni (obiettivo ambizioso, non irraggiungibile).
Tuttavia quella regola – la regola del debito – era stata concepita con l’aritmetica di un tasso di inflazione al 2%, obiettivo della Bce. Poiché l’inflazione si prospetta più bassa almeno per un paio d’anni a venire, risulta più gravosa di quanto progettato; anche negli uffici della Commissione se ne stanno accorgendo. Un aggiustamento prima o poi si imporrà.
La diversa regola a cui Renzi intende derogare è protetta da procedure sanzionatorie meno rigide. In sé, il discorso fila: «Risanare i conti subito sarebbe troppo pesante per una economia che non cresce: dateci più tempo per fare riforme che la dinamizzino». Ma le riforme occorre farle davvero. E forse è sensato quel che si dice nella City di Londra: se non cominciano entro giugno vuol dire che non si fanno più.
La Stampa 18.04.14