I neofascisti che si ritroveranno nuovamente imputati per la strage di piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia, che uccise otto persone, erano stati assolti per un «ipergarantismo distorsivo». Lo spiega la Corte di Cassazione nelle 84 pagine di motivazioni in base alle quali sono stati annullati i proscioglimenti per Carlo Maria Maggi, ex Ordine Nuovo, e Maurizio Tramonte, che ora viene descritto come un «reticente» e «intraneo» della destra eversiva, più che come un presunto infiltrato dei servizi. I due tornano rinviati a giudizio come mandanti e forse anche come esecutori materiali della strage a dispetto della sentenza di assoluzione del 2012 che, secondo i giudici supremi, ha prodotto conclusioni «assolutamente illogiche ed apodittiche». Per la Cassazione sono stati «sviliti» i numerosi indizi raccolti contro di loro, come il sostegno allo stragismo eversivo di destra di cui Maggi, ad esempio, era un «propugnatore».
Secondo i giudici, un dato di fatto importantissimo, che muta il quadro indiziario, è che «l’ordigno esplosivo sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio, conservata presso lo Scalinetto». Le conclusioni assolutorie per Maggi sono, secondo la Corte, «ingiustificabili e superficiali». (s.b.)
Lo scorso 20 febbraio, l’avvocato di parte civile Sinicato (un “veterano” dei processi per strage celebrati a partire dagli anni Novanta), concludendo l’arringa all’udienza in Cassazione per la strage di Brescia (undicesimo grado di giudizio), aveva osservato che, dopo tanti don Abbondio, c’era da augurarsi che qualcuno prendesse esempio dalla coraggiosa fermezza di fra’ Cristoforo, anche nel formulare i giudizi e motivarli. La prima impressione ricavata dalla lettura delle 84 pagine di motivazioni della decisione della Suprema Corte, è che il suo desiderio sia stato esaudito.
Ci consegnano infatti parole dure e nette. Appare difficile la posizione dei due imputati che presto torneranno a giudizio presso la Corte d’Appello di Milano, il leader di Ordine nuovo Maggi e il suo “soldato” Tramonte, al contempo informatore del Sid. I ricorsi hanno colto nel segno, ripetono più volte: troppe illogicità viziano le motivazioni della sentenza d’appello bresciana del 2012 «affetta prima di tutto da un’erronea applicazione della legge penale, con riferimento alle modalità di valutazione degli indizi». Nella ricostruzione, con apprezzabile sforzo, l’appello aveva messo molti punti fermi. La Cassazione conferma, per esempio, come l’ordigno che uccise otto cittadini che manifestavano pacificamente «sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio [il defunto armiere di Ordine nuovo, coinvolto sia nella preparazione della strage di piazza Loggia che in quella di piazza Fontana], conservata presso lo “Scalinetto”, una trattoria veneziana a due passi da San Marco, al tempo ritrovo di neofascisti, covo e santabarbara di Maggi, e il defunto ordinovista Soffiati ha aiutato nel trasporto.
Un «dato di fatto importantissimo », alla luce del quale vanno valutati tutti gli altri, numerosissimi, indizi a carico di Maggi. La sua assoluzione è stata motivata in modo «congetturale e poco plausibile», è «caratterizzata da valutazione parcellizzata e atomistica degli indizi…» scartati nella loro potenzialità dimostrativa
senza una più ampia e completa valutazione. È stato così distrutto il «valore probatorio che il nostro sistema giudiziario attribuisce alla valutazione complessiva di tali mezzi di prova».
La Cassazione dedica molte pagine a spiegare, con chiarezza encomiabile — così che ogni cittadino, pur inesperto di legge possa capire — che se sono gravi precisi e concordanti, gli indizi non valgono meno della prova diretta: un’importante lezione di metodo, di onestà intellettuale e di diritto, nel Paese dove i processi per le stragi della “strategia della tensione”, i cui esecutori,
la galassia dell’eversione neofascista, con complicità di militari italiani e americani e dei servizi segreti (la Cassazione ribadisce anche questo), sono stati quasi sempre processi indiziari, perché tali li ha resi la sistematica attività di depistaggio (nel caso di Brescia, l’interferenza del Sid nel sottrarre documenti scottanti è stata fatale). È dura, la Cassazione, coi giudici di appello «perché, pur avendone promesso una valutazione sistematica» dei tanti indizi a carico di Maggi (e rimproverando ai giudici d’Assise di aver mancato al loro dovere in questo senso!) «ne ha poi condotto, in concreto, un’indagine atomistica, svalutandone la portata». Gli elementi fattualmente accertati, rimessi in fila inesorabilmente dalla Cassazione rendono, ad oggi, illogica l’assoluzione. E poi, capo indiscusso di un’organizzazione gerarchica come On, come sostenere che il suo sottoposto Digilio, quadro coperto, esperto d’armi ma politicamente “debole”, abbia agito, con esplosivo di Maggi, a sua insaputa e di propria iniziativa, per fare un attentato come quelli che il capo caldeggiava, di cui disse «non deve restare un fatto isolato»? La Cassazione rivaluta anche il valore della collaborazione di Digilio, il più importante “pentito nero”.
Si aggrava moltissimo, poi, la posizione di Maurizio Tramonte. La Cassazione mette in discussione persino il suo alibi per la mattina della strage. L’allora giovane fascista disse di Maggi “questo è pazzo”, uscendo da una riunione ristretta ad Abano Terme, tre giorni prima della strage: «La Corte d’appello non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi che gli appunti», dettagliate note informative in cui Tramonte racconta al Sid in presa diretta la riorganizzazione della destra eversiva nella dannata primavera ‘74 «non contengano alcun cenno alla strage perché Tramonte non voleva rischiare di autoaccusarsi». Tramonte ha fatto impazzire gli inquirenti per anni con la sua “collaborazione”, prima accumulando fandonie, poi ritrattando in dibattimento quanto era sopravvissuto al vaglio dell’inchiesta. Per assolverlo, sarà necessario motivare (finora non è stato fatto) se e come possa essere considerato un semplice infiltrato dei servizi, quindi non punibile, e approfondire il suo ruolo nella preparazione dell’attentato «alla luce della sua palese reticenza». C’è da aspettarsi, quindi, che il nuovo processo approfondirà la pagina, nerissima, dei depistaggi dei servizi segreti.
La Repubblica 16.04.14