Per una sorta di convenzione non scritta, si dice che i capi di governo possano disporre di cento giorni iniziali di «luna di miele», un periodo in cui vengono comunque loro perdonati errori e «gaffes», indecisioni e contraddizioni. Per Matteo Renzi, presidente del Consiglio dal 22 febbraio, si può parlare di una «luna di miele» dimezzata: appena cinquantun giorni separano l’entrata in carica dalle nomine dei nuovi vertici delle principali imprese controllate dallo Stato, che il suo governo ha deciso la sera del 14 di aprile.
Queste nomine, infatti, segnano il passaggio da un semplice «effetto annuncio» di provvedimenti – che si sono rivelati, come c’era da aspettarsi, tecnicamente ben più difficili da scrivere e da far approvare di quanto il nuovo governo prevedesse – a un cambiamento concreto non solo di persone ma anche di tipologia dei massimi dirigenti di queste imprese, pur non del tutto immuni da conflitti di interesse.
Allo scardinamento e alla «rottamazione» del vecchio modo di fare politica, a un vero e proprio diluvio di dichiarazioni del presidente del Consiglio e dei suoi ministri ha fatto seguito un atto concreto di «incardinamento» del nuovo in alcuni dei principali gangli del potere economico italiano. Si tratta di un vero e proprio salto di qualità che segna la fine dell’inizio di questa esperienza di governo, la sua entrata in una fase di maturità.
Se tutto andrà secondo le previsioni del presidente del Consiglio, i prossimi cinquanta giorni dovrebbero portargli un’importante vittoria alle elezioni europee, determinata da un elettorato grato per il primo sgravio fiscale, a carattere generalizzato. Di qui dovrebbe derivare una spinta inarrestabile a ulteriori mutamenti di tipo costituzionale, riguardanti la legge elettorale e i compiti del Senato e un definitivo consolidarsi degli impulsi di ripresa che si cominciano a intravedere chiaramente nell’economia anche se, per ora, il loro effetto generale continua a rimanere incerto.
La fortuna, diceva Virgilio, aiuta gli audaci, o, come più probabilmente direbbe il toscano Renzi, chi non risica non rosica. Renzi ha sicuramente «risicato» abbastanza, continuando a mettere sulla bilancia il proprio ritiro in caso di sconfitta con un coraggio che non appartiene alla classe politica italiana: riuscirà ora a «rosicare», ovvero a raggiungere quell’insieme di cambiamento istituzionale, rilancio economico e successo politico che persegue con grande energia?
A questo interrogativo naturalmente nessuno è in grado di rispondere con un sì o con un no. L’aver portato a termine l’operazione nomine, in ogni caso, gli renderà più facile portare a termine il cambiamento istituzionale in un clima di recupero economico. L’operazione nomine, infatti, rappresenta un chiaro segno di discontinuità nei rapporti, spesso al limite della regolarità, tra mondo politico e imprese pubbliche. La realtà di queste imprese non cambierà dall’oggi al domani e non è neppure necessario che ciò avvenga. Diventeranno però, quasi certamente, imprese più trasparenti e, come tali, più adatte al sistema di mercato. Il loro valore di mercato aumenterà, che le si voglia davvero privatizzare o no, e controbilancerà più efficacemente il debito pubblico.
In questa prospettiva, la possibilità che la ripresa attecchisca diventa più consistente, soprattutto se la convinzione di trovarsi di fronte a qualcosa di nuovo e di dinamico indurrà gli italiani a modificare i loro comportamenti timorosi e quindi a dar vita a nuove iniziative, di investimento e di consumo, che rinvigoriscano la domanda interna. Per citare ancora Virgilio, Renzi si è collocato nella posizione di quelli che «possunt quia posse videntur», hanno potere perché (e potremmo aggiungere finché) questo potere ha una manifestazione visibile.
Perché il suo potere continui a essere visibile, e quindi a produrre cambiamenti effettivi sulla società e sull’economia, il presidente del Consiglio dovrebbe però evitare alcune cadute di stile. A cominciare dalla «scivolata» nel populismo che l’ha portato a far pagare alle banche la parte maggiore degli ottanta euro in più che dovrebbero arrivare, entro un tempo brevissimo, nelle buste paga degli italiani: le banche non sono vacche da mungere, specie in fase di ripresa, e di latte alla finanza pubblica ne stanno già dando tanto. E continuando con la dichiarazione di venerdì di una «violenta lotta» alla burocrazia: la burocrazia ha molti difetti ma non è tutta bacata e la violenza semplicemente non può avere spazio nel suo progetto di rinnovamento.
La Stampa 16.04.14