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"Dalla parte del professor Lucignolo", di Elisabetta Rosaspina

Lucignolo ha fatto strada. Tanto per cominciare, si è trovato un buon avvocato: il Checco. Del quale scarseggia un’iconografia ufficiale, perché se n’è sempre restato nell’ombra, alle spalle della sua controfigura: un maturo, rispettabile professore, dal viso rotondo e cordiale, capace di scardinare in poche battute le difese del più ostico degli «adolescenti ingrati». Loro non amano i banchi di scuola? Sapessero quanto poco li ha amati lui! Loro fanno impazzire insegnanti e genitori? Bazzecole, in confronto alle imprese fanciullesche del Checco, che, per chiarire fin dal principio la sua opinione dell’autorità costituita, si presentò al mondo in posizione podalica. Sessantasette anni fa.
E se non tutti i docenti osano ammettere la loro insofferenza dinnanzi alla tirannia dei programmi scolastici ministeriali, e alla relativa, inflessibile tabella di marcia, il Checco non si fa problemi: «Che palle, li odio!». A nove anni, in quarta elementare, forse non si sarebbe azzardato a esprimersi così direttamente, ma riuscì comunque a persuadere il maestro Giorgio a organizzargli addirittura «un piano personalizzato di lavoro», per consentirgli di sviluppare il suo talento naturale per il disegno. A metà degli anni Cinquanta il suo futuro era tracciato. Il destino di molti altri Lucignoli a venire, anche.
Non sarebbe diventato un pittore di professione, ma un sagace vignettista al servizio del libero pensiero, di una bonaria irriverenza; e di una mai dominata ribellione alle imposizioni, ai dogmi e, vivaddio, ai derivati tossici del nozionismo. Due anni esatti dopo il primo successo editoriale, Cercasi scuola disperatamente (Urra, 2012), torna il professor Francesco Dell’Oro con i suoi racconti su «le ragioni del disagio scolastico e come aiutare i nostri ragazzi a superarlo». Riunite sotto un titolo che non concede dubbi quanto alla parte dalla quale il professore ha scelto di schierarsi: La scuola di Lucignolo (Urra).
Ma stavolta Dell’Oro non si limita a raccontare le sue esperienze, tristi, problematiche o — più raramente — esilaranti, come responsabile del servizio orientamento scolastico del Comune di Milano (che nel frattempo ha deciso meccanicamente di pensionarlo): dedica un capitolo anche alla «storia di Checco», che i tanti ragazzi, passati ogni anno dal suo ufficio, hanno in molti casi già appreso, almeno in parte. Di solito basta qualche capitolo, all’imprevedibile professore, per farsi aprire le porte di un territorio sconosciuto, o dimenticato, dagli adulti: «la Terra degli Adolescenti», come la definisce lui. Un pianeta che segue un’orbita tutta sua: «Lontano o, peggio, in rotta di collisione con il mondo della scuola, il mondo della famiglia e quello del lavoro», scrive, amaro, Dell’Oro.
Un pianeta che può trasformarsi, soprattutto, in una impenetrabile torre d’avorio: «I grandi — avverte il professore — usano il linguaggio delle parole. I ragazzi, quello delle emozioni. È un problema di comunicazione. Per entrare in sintonia con loro devi emozionarli, divertirli, appassionarli. Funziona. Indipendentemente dall’età. Funziona anche con gli insegnanti, quando tornano sui banchi, studenti ai corsi di formazione». Funziona con i genitori, agli incontri e alle conferenze dove Dell’Oro continua, da volontario indipendente, la sua missione: «Alla fine, una volta, mi ha avvicinato una mamma — ricorda Dell’Oro — e mi ha detto: ho riso per due ore, ma adesso sono preoccupatissima. Ero riuscito nel mio intento».
Le avventure di Checco sono sempre un buon grimaldello per far abbassare il ponte levatoio del Castello degli adolescenti, precluso ai genitori e alla maggioranza degli insegnanti. Anche lui è stato vittima di valutazioni affrettate, giudizi respingenti e deleterie bocciature. Ma anche lui ha conosciuto il sollievo di incontri felici: come «il prof. Giulio B. Un formatore con una dote rara: sapeva ascoltare e non giudicava mai».
Gli studi classici e di filosofia in un istituto religioso, il diploma in servizio sociale, con un’esperienza in un ospedale per anziani, gli studi di fisiopatologia con una tesi sull’epilessia, l’insegnamento in scuole speciali e nei corsi di alfabetizzazione, una laurea come esperto dei processi formativi: quale adolescente incerto e ondivago tra inclinazioni personali e pressioni familiari, al momento di optare per gli studi superiori, non si sente rassicurato da un simile modello di variabilità? «Ci sono buoni motivi, ripensando alla mia esperienza e a quella di molti altri adulti, per riflettere sull’imponderabilità dei processi di maturazione e di crescita professionale — scrive l’autore —. Con particolare riferimento alla difficoltà di intercettare potenzialità, attitudini e competenze di uno studente definito, troppo superficialmente e semplicemente, come uno che non studia».
Vero. Dell’Oro parteggia (quasi) sempre per loro, gli studenti difficili. O in difficoltà, che talvolta è la stessa cosa. Lo ammette. Poca comprensione per i professori che devono seguire o concludere un programma. Moderata pietà per le ansie dei genitori dalle aspettative insoddisfatte. «Ma di che scuola stiamo parlando? La scuola per quelli bravi? È questo che vogliamo? Unascuola che escluda tutti gli altri?». I voti. I voti fanno impazzire Dell’Oro: «È giusto che i ragazzi imparino a misurarsi con le frustrazioni, ma un sistema di valutazione deve avere anche un respiro pedagogico. Ognuno di noi ha un percorso di crescita». Invece per 800 mila ragazzi italiani fra i 18 e i 24 anni, ricorda il professore, quel percorso si è interrotto. Non sono andati oltre la scuola media. Fermati dai brutti voti.
«La scuola a cui pensa Dell’Oro, che molti di noi vorrebbero veder trionfare — sottoscrive un altro scrittore, Eraldo Affinati, nella prefazione —, dovrebbe essere il luogo elettivo dell’errore. Altrimenti Lucignolo non tornerà più in aula e resterà sempre nel Paese dei Balocchi». Magari resterebbe, se invece di ricevere un 4 sentisse dire, come dice Dell’Oro: «Questa cosa non la so nemmeno io. La cerchiamo insieme?».
I brutti voti, ma anche i tempi: «Negli anni Cinquanta imparavamo a leggere e a scrivere in tempi più distesi», rammenta il professore. Che pubblica, come un manifesto, il grido di dolore di Giovanni, moderno Lucignolo: «La scuola è una palla. Ho capito che è importante, ma almeno rendetela divertente!». Come? «Meno compiti a casa, e più laboratori — rivendica l’epigono di Checco —. I bambini hanno diritto di giocare».
Chissà che anche Giovanni non diventi un giorno un professore.

Il Corriere della Sera 14.04.14