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"I veri diritti di mamma e papà", di Michela Marzano

Con la decisione presa ieri dalla Consulta sulla fecondazione eterologa è caduto l’ultimo paletto imposto dalla tristemente celebre legge 40. Non si potrà più impedire la fecondazione a chi, per avere figli, ha bisogno di ricorrere a un dono di gameti (ovuli o sperma). E non si potranno quindi più discriminare alcune coppie sterili. Perché d’altronde focalizzarsi sui legami genetici esistenti o meno tra genitori e figli senza accettare l’evidenza del fatto che non è certo il patrimonio genetico che rende una donna “madre” o un uomo “padre”? Come diceva lo scrittore francese Marcel Pagnol, quando un bimbo nasce, pesa tre o quattro chili. Poi cresce, e mette su i “chili amore” dei propri “ parents”, termine che in francese designa i “genitori sociali”, da non confondere con la parola “ géniteurs” che indica invece i “genitori biologici”. Ancora una volta, però, l’Italia è vittima di un provincialismo culturale che impedisce a molti di capire che la genetica non potrà mai spiegare la complessità dei legami familiari, e che le questioni “eticamente sensibili” dovrebbero essere affrontate con rigore e lucidità. Ci si immagina che rendere possibile l’inseminazione eterologa significhi trasformare la maternità e la paternità in una sorta di marketingcon compravendita di gameti. Si fantastica che il dono di gameti possa introdurre in una coppia il “fantasma dell’adulterio”. Si invoca il primato dell’interesse dei bambini rispetto a quelli degli adulti, ricordando il diritto dei figli a conoscere le proprie origini. Nessuno di questi argomenti, però, è decisivo. Anzi. Basta analizzarli con serenità — guardando anche come gli altri paesi europei hanno affrontato la questione della fecondazione eterologa — per rendersi conto della loro inconsistenza. Nel momento in cui si organizza il dono di gameti sulla base dei principi di gratuità e di anonimato, come accade ad esempio in Francia già dal 1994, vengono meno molti pericoli: non è la coppia che sceglie i donatori, ma i medici, che decidono sulla base di criteri strettamente sanitari; i donatori non vengono mai remunerati per il dono che fanno e non acquisiscono alcuna relazione giuridica parentale con i bambini; il dono è solo “dono di materiale genetico”, e non ha né “volto”, né “nome”. Per quanto riguarda poi la questione delle origini, basterebbe ricordare la sentenza del 18 novembre 2013 della Corte Costituzionale, in cui si spiega come permettere ad un figlio di conoscere le proprie ori-
gini significhi permettergli di “accedere alla propria storia parentale”. Ma quando si parla di storia, non si parla certo di “codice genetico”, a meno di immaginare che il codice genetico ci racconti la storia dei nostri genitori. Quella storia che li ha portati a desiderarci o meno, a volerci crescere e darci o meno affetto, a trasmetterci o meno valori e principi.
Il caso dei bambini adottati, in questo senso, non ha niente a che vedere con quello dei bambini nati grazie ad un’inseminazione eterologa. Nell’adozione, c’è sempre la storia di un abbandono. Storia cui è sicuramente importante avere accesso, anche solo per poter fare il lutto di quest’abbandono. Ma quale abbandono ci sarebbe nel caso di chi è nato grazie ad un dono di gameti? La storia parentale, in questo caso, non è forse quella di chi, sterile, desiderava a tal punto avere un figlio che è ricorso ad un dono di gameti?
Chi si oppone con accanimento alla fecondazione eterologa forse dimentica (o fa finta di dimenticare) che non c’è bisogno di ricorrere alle tecniche procreative per trattare i figli come “oggetti” a propria disposizione. Basta desiderare un figlio per colmare un vuoto oppure perché i propri sogni e i propri desideri possano un giorno realizzarsi, per trasformare i figli in “cose”. E lo stesso vale per tante altre motivazioni che spingono ad avere un figlio, che si tratti del conformismo o del desiderio di avere una discendenza. Ma questo, appunto, vale sempre, non solo nel caso in cui si ricorra ad una fecondazione eterologa.
Diventare genitori è sempre complesso: si tratta di accogliere un’altra vita riconoscendola come “altro” rispetto a sé; significa aiutare a crescere chi dipende in tutto e per tutto da noi; significa amare incondizionatamente e senza ricatti. Poco importa, poi, se ci siano stati ostacoli o incidenti di percorso o se, per far nascere un figlio, ci sia stato bisogno di ricorrere ad un dono di gameti. Chi può anche solo immaginare che avere lo stesso patrimonio genetico dei propri genitori metta al riparo dalle difficoltà della vita?

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“Noi, trattati per anni da delinquenti”, di CATERINA PASOLINI

ELENA parla con irruenza e passione, legando attimi di vita privata e spirito civico. Col marito Alessandro, anche lui libero professionista di Catania, forma una delle due coppie assistite dagli avvocati Costantini e D’Amico che hanno convinto con la loro storia la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo il divieto di fecondazione eterologa.
A chi dedica questa vittoria?
«Alle coppie incontrate nei nostri viaggi della speranza all’estero. A quelle che si sono impegnata la liquidazione, a chi ha chiesto prestiti e inventato scuse per ottenere un mutuo e pagarsi il sogno di un figlio. Ho pensato a chi è finita in mani di gente poco professionale, a sfruttatori, a chi ha lucrato sul desiderio disperato di diventare genitori».
Grazie a voi tutto cambia
«Adesso finalmente quelle migliaia di coppie che ogni anno varcavano i confini, forse potranno provare ad avere un figlio vicino ai loro cari, nelle loro città, con un controllo medico
accurato e quotidiano o per lo meno raggiungibile. Potranno diventare genitori in sicurezza e senza sentirsi più come dei ladri».
Si è sentita come una delinquente?
«Sì noi ogni volta che siamo andati all’estero per cercare una gravidanza abbiamo mentito ad amici e parenti, inventando vacanze o impegni di lavoro inesistenti per nascondere le nostre vere intenzioni. Consci di commettere un reato, di fare qualcosa contro la legge italiana, ingiusta, ma non contro la nostra coscienza. Sentendoci come cittadini di serie B, colpevoli di sterilità e quindi condannati ad agire nell’ombra, a mentire, ad andare oltre confine non sapendo in quali mani saremmo finiti».
Come inizia la sua odissea?
«Una vita come tante divisa tra lavoro e matrimonio. Poi all’improvviso, dopo aver avuto mia figlia che ora ha sei anni, mi ritrovo in menopausa a 34 anni. L’ho scoperto dopo un po’ di mesi, non capivo perché non riuscivo più a restare incinta. E quando i medici me lo hanno spiegato è stato uno shock, mi sono sentita fallata, persa. Non riuscivo proprio a crederci, mi sembrava che il mio corpo mi avesse tradito, non mi riconoscevo».
La solitudine di chi è sterile?
«Sì, nessuno può capire cosa si prova se non ci è passato, e per me era anche più sopportabile visto che una figlia ce l’avevo. Ma comunque è stata durissima. Per questo mi fanno impressione i commenti alla sentenza dei politici, così asettici, segno che loro non hanno mai ascoltato le storie di dolore, di sofferenze, il calvario di chi cerca un bambino che la natura gli nega, che si sottopone a mille cure pur di continuare a sperare».
Crisi di coppia?
«Cercare un figlio è un percorso faticoso non solo fisicamente ma soprattutto dal punto di vista emotivo, psicologico. Diventa un viaggio profondo all’interno della coppia che ti porta a domandarti chi sei, cosa vuoi, valutare l’importanza dei legami, l’idea che hai della famiglia, della genetica».
La ricerca del figlio perfetto?
«No assolutamente no, noi abbiamo sempre pensato che un figlio è di chi lo cresce e lo ama, non importa se è adottato o se è frutto dell’eterologa. Forse per questo non mi sono mai fatta tante domande su chi fosse la donatrice dell’ovulo che mi avrebbero impiantato fecondato dal seme di mio marito, non era importante. Quando sarebbe nato il piccolo, dopo essermelo tenuto in pancia per nove mesi, sarebbe stato semplicemente il nostro bambino».
Eterologa o adozione per lei è lo stesso?
«Sì, tanto che mentre assieme a mio marito cominciavamo a navigare in rete alla ricerca dello studio medico giusto, abbiamo dato avvio anche alle pratiche per l’adozione internazionale. E forse ora, dopo una “gravidanza” di 4 anni ci siamo vicini. Forse arriverà un
fratellino».
Quattro anni di tentativi
«Un calvario, emotivo, fisico, un alternarsi di speranze e delusioni, di viaggi all’estero, di finte vacanze e di veri segreti. tutto con gran senso di solitudine, col peso delle nostre scelte solo sulle nostre spalle, senza poterlo condividere. Dopo aver guardato le varie offerte su internet abbiamo scelto la Grecia e con la scusa del turismo siamo partiti. Con nostra figlia al seguito che era piccolina, aveva solo due anni. Non avremmo potuto lasciarla sola».
Come è andata in Grecia?
«Abbiamo usato tutti i nostri risparmi, circa diecimila euro, tra cure e viaggi. I medici erano bravi e la struttura professionale e accogliente, a differenza dei luoghi in cui sono incappate tante coppie, tante donne che sono finite nelle mani di gente avida, pronta a tutto per soldi e con poche garanzie mediche. Nonostante la bravura dei dottori purtroppo non ha funzionato. Abbiamo fatto due tentativi a distanza di mesi e l’unica gravidanza è durata solo qualche giorno. Neppure il tempo di sperare che era già tutto finito ».
A sua figlia racconterà la sua storia?
«Sicuramente sì, perché magari la mia menopausa precoce è genetica e quindi anche lei avrà forse bisogno di cure, ma soprattutto racconterò la nostra odissea, il desiderio di diventare ancora una volta genitori. Le parlerò delle difficoltà, della scelta di portare la nostra storia nelle aule di giustizia per il bene e i diritti di tutte le coppie. Le dirò di un paese dove da oggi, anche se resto sterile, non mi sento più trattata come una italiana di serie B».

La Repubblica 10.04.14