Sono stati dieci anni travagliati quelli della Legge 40, due lustri di battaglie giudiziarie che ne hanno riscritto e ridimensionato la portata e il significato originari. Sono stati 29 gli interventi dei tribunali con venti bocciature e la «riscrittura» di alcune sue parti con sentenza della Corte costituzionale, unico organo che può cancellare i divieti modificando leggi in vigore.
Sono tre i pilastri della legge sulla fecondazione in vitro già abbattuti dai giudici: il divieto di produzione di più di tre embrioni, l’obbligo di impianto contemporaneo di tutti gli embrioni prodotti, su cui è inter- venuta appunto la Consulta nel 2009, e il divieto di diagnosi preimpianto (ma per le coppie infertili, quelle che hanno accesso alla Pma, con intervento del Tar del Lazio sulle linee guida).
Ecco la fotografia attuale della legge 40 (secondo una elaborazione dell’Associazione Coscioni): Divieto di produzione di più di tre embrioni: rimosso con sentenza della Corte costituzionale 151/2009.
Obbligo di contemporaneo impianto di tutti gli embrioni prodotti: rimosso con sentenza della Corte costituzionale 151/2009.
Divieto di diagnosi preimpianto: rimosso con sentenza del Tar del Lazio del 2008 che ha annullato per «eccesso di potere» le Linee Guida per il divieto di indagini cliniche sull’embrione.
Divieto di accesso alle coppie fertili ma portatrici di patologie genetiche: è oggetto della questione di costituzionalità sollevata dal Tribuna- le di Roma e in attesa di udienza davanti alla Corte costituzionale. Divieto di eterologa: in attesa di udienza in Corte costituzionale che sarà oggi.
Divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica: in attesa di udienza in Corte costituzionale che sarà oggi.
Divieto di accesso alla fecondazione assistita per single e coppie del- lo stesso sesso: in vigore. In Italia manca però, come spiega Filomena Gallo dell’associazione Coscioni, una legislazione di riferimento.
L’Unità 08.04.14
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«La Consulta mi aiuti a diventare mamma»,di Mariagrazia Gerina
Devono permetterci di farlo in Italia, io all’estero non ci torno più», ripete con un filo di voce Elisabetta, trentaquattro anni, siciliana. Lei e suo marito sono una delle migliaia di coppie sterili che la legge 40 sulla procreazione assistita ha costretto ad emigrare in cerca delle cure negate. A loro è andata male e sentono di aver pagato un prezzo troppo alto per provarci ancora. Se la Consulta dovesse cancellare il divieto di fecondazione eterologa, allora sarebbe diverso: «In Italia mi sentirei più tutelata», spiega Elisabetta, in attesa del verdetto della Corte costituzionale. «C’è qualche speranza stavolta?», ha scritto alla vigilia dell’udienza a Filomena Gallo, legale e segretario della Associazione Luca Coscioni, che interverrà davanti alla Consulta parlerà a nome di tutte le coppie ostacolate dalla legge 40.
Coppie come Elisabetta e Giovanni. I nomi sono di fantasia, la loro storia no. È storia italiana. Elisabetta e Giovanni sono siciliani. Quando si sono sposati, ad agosto 2011, sapevano già che sarebbe stato difficile avere figli. «Mio marito ha la sindrome di Klinefelter e non produce spermatozoi», spiega Elisabetta: «Però pensavamo che con la fecondazione assistita avremmo potuto lo stesso mettere al mondo dei bambini. Poi il medico ci ha spiegato che era possibile sì, ma solo attraverso la fecondazione eterologa, che in Italia è vietata». Inizia così il loro viaggio del- la speranza, fai-da-te. «Prima cerchi in rete le cliniche e i centri che all’estero fanno l’eterologa, poi entri nei forum, cominci a scambiarti informazioni con le altre coppie…». Un viaggio senza rete. Si va per tentativi. «All’inizio ci siamo rivolti al centro Procrea in Svizzera, ma ci chiedevano 3.500 euro solo per la fecondazione, escluso il viaggio: troppo per noi, così abbiamo cercato ancora». Alla fine, per risparmiare, hanno scelto di andare a Praga, al centro Gennet, dove i costi sono molto più bassi: «1900 euro tra prelievo e trasferimento più i costi dei medicinali che de- vi assumere prima di partire». E così ha fatto Elisabetta, che, come fosse un agente segreto, ha ricevuto da Praga il piano terapeutico da seguire in Italia. Poi ad aprile è partita per la Repubblica Ceca per la fecondazione. Le cose però non sono andate bene: «Cinque giorni dopo il prelievo degli ovociti avrei dovuto fare i trasferimento in utero, ma ho cominciato a sentirmi male: sono andata in iperstimolazione ovarica, ho preso dieci chili in tre giorni. Mi hanno detto di farmi ricoverare lì a Praga, ma io non me la sono sentita e sono voluta tornare in Italia, dove sono stata in ospedale per 11». Non è stato facile, ma a luglio, quando è stata meglio, Elisabetta è tornata a Praga per l’impianto. Solo che, dopo essere rimasta incinta, alla ottava settimana ha avuto un aborto spontaneo. L’unica cosa semplice è stata quella che in Italia mette più paura: la scelta del donatore. «Ci hanno domandato una fotografia per fare in modo che fosse simile a mio marito, non l’abbiamo chiesto noi, non ci importava. Non so se altrove funziona diversamente».
Il terzo e ultimo viaggio lo hanno fatto a gennaio. Ultimo perché è andata male, gli embrioni sono finiti e Elisabetta e Giovanni non hanno i soldi per provarci un’altra volta. «Io sono laureata in Lingue ma disoccupata, mio marito è artigiano. I soldi per andare a Praga ce li hanno prestati i nostri genitori. Anche risparmiando su tutto, scegliendo il paese più economico, la stanza d’albergo a 40 euro, ci vogliono almeno 6mila euro per tentare ancora». E poi non è solo una questione economica: «Ho avuto paura – racconta Elisabetta -, sono stata male, ho rischiato la vita. Un’altra volta non ce la faccio. Non così, non sei abbastanza seguita. Se potessi ritentare in Italia sarebbe diverso, mi sentirei più tutelata. Così il tuo ginecologo non può neppure prendere contatto con la clinica che ti segue, per paura della legge».
L’unica speranza ora è che la Consulta metta fine a questo incubo, suo e di tante altre donne. «Io credevo di essere l’una e invece ho scoperto che ce ne sono tantissime in Italia di coppie come noi. A Praga ne ho incontrate proprio tante. Per questo mi chiedo:
perché all’estero sì e in Italia no? Forse perché in Italia c’è il Vaticano? Ma che c’entra la religione? Perché non lascia- re queste scelte alla coscienza di ciascuno?», si domanda Elisabetta, da cattolica oltretutto, che crede e va a messa. «E poi basta ripeterci: ma perché non adottate un bambino? Come se poi fosse più facile. O come se fosse da egoisti voler restare incinta. Sì mio marito, anche se non può avere figli, vuole vedermi con il pancione, vivere la gravidanza con me e allora? La scienza ce lo permette perché la legge ce lo deve vietare?».
L’Unità 08.04.14