Saranno pure semi-vuoti i teatri della tournée siciliana di Beppe Grillo. Ma le urne degli euroscettici erano piene in Francia e in Ungheria. Vediamo le ultime proiezioni sul primo vero voto europeo.
ccreditano gli euroscettici di circa 150 seggi sui 751 nel nuovo Parlamento europeo, decisivi nello spostare la maggioranza a favore dei socialdemocratici o dei popolari. Nei paesi del Sud gli euroscettici sostengono la causa dell’opposizione all’austerità imposta dalla Germania, mentre al Nord prendono di mira gli immigrati che provengono dai paesi del Sud-Europa, compresi bulgari e romeni che fuggono dalla crisi in Spagna e in Italia. Il collante del populismo continentale è il rigetto della moneta comune. È un euroscetticismo con il simbolo dell’Euro al posto della “e”.
Gli argomenti utilizzati da chi propugna l’uscita unilaterale dell’Italia dall’Euro si giovano del fatto che non ci sono precedenti storici. Si può dire tutto e il contrario di tutto senza timore che qualcuno dal pubblico alzi la mano contraddicendo chi parla coi propri ricordi. Ma alcuni argomenti ricorrenti degli anti-euro nostrani sono talmente sconclusionati che non hanno bisogno di essere smentiti dalla storia. Fra questi l’idea che l’uscita dall’euro ci porterà a pagare meno tasse. Uno dei volantini del Movimento per l’Uscita dell’Italia dall’Euro, stranamente con sede a Londra e animato da persone che presumibilmente hanno redditi, se non patrimoni, all’estero, attribuisce all’euro qualsiasi aumento delle tasse della storia repubblicana. Si risale addirittura alle manovre di Rino Formica del 1990. E naturalmente, appena usciti dall’incubo euro, queste tasse evaporerebbero come d’incanto. Con una pressione fiscale al 60 per cento (per chi le tasse le paga davvero), l’idea è alquanto suggestiva. Ed è un vero peccato doverla smontare.
Se l’Italia dovesse uscire dall’Euro, il nostro debito pubblico potrebbe solo aumentare. C’è una quota di titoli di Stato e di prestiti contratti dallo Stato italiano sui mercati
internazionali, che aumenterebbe in proporzione alla svalutazione della lira nei confronti dell’euro e delle monete in cui i nostri titoli sono denominati. La parte restante potrebbe essere ridenominata in lire causando perdite ingenti agli investitori stranieri che hanno nostri titoli in portafoglio. Sarebbe come un ripudio unilaterale del debito, cui seguirebbe inevitabilmente un lungo periodo di chiusura del nostro paese ai mercati internazionali. Questo significa di fatto uno spread che tende all’infinito, un destino paradossale dopo che siamo riusciti a riportare i tassi di interesse sui nostri titoli decennali al minimo storico. E come pagare questi interessi più alti se non con nuove tasse?
Certo, a quel punto ci sarebbe sempre la possibilità di ripudiare anche il debito in lire, non rimborsando i titoli di Stato alla scadenza, una mossa serenamente evocata in televisione da Beppe Grillo. Peccato che anche questa sarebbe una tassa, una patrimoniale sui risparmiatori italiani che hanno investito i loro risparmi in titoli di Stato. E che patrimoniale! Quando si parla di tassare i patrimoni si ragiona su aliquote al massimo del 5 per mille. Qui si avrebbe una tassa che può arrivare fino all’80 per cento dei risparmi di una famiglia italiana, in genere appartenente al ceto medio (i ricchi hanno patrimoni maggiormente diversificati). Un altro argomento utilizzato dagli anti-euro è che il debito potrebbe essere monetizzato, facendo comprare alla banca centrale, che può stampare moneta, le nuove emissioni di titoli di Stato, sempre che il Governatore di Bankitalia si presti a questa politica. Per fortuna abbondiamo di precedenti storici di monetizzazione del debito. Basti pensare ai miniassegni sul finire degli anni ‘80 scambiati in fretta e furia prima che perdessero valore, un surrogato di una moneta che ogni giorno vedeva erodersi il proprio potere d’acquisto, con un’inflazione a due cifre. Certo, quando l’inflazione aumenta, i debitori, tra cui lo Stato italiano, vedono ridursi il valore di quanto devono ripagare. Ma a fronte di questi debitori contenti, ci sono creditori che piangono, famiglie italiane che hanno messo i risparmi in titoli di Stato o in attività che non sono indicizzate all’inflazione e che perderebbero molti soldi. Anche questa, dopotutto, è una tassa, la tassa da inflazione. Ed è utile notare che l’inflazione colpisce sempre le persone più vulnerabili, quelle che non sono in grado di avere redditi indicizzati ai prezzi e che perciò vedono ridursi il loro potere d’acquisto del 10-15% ogni anno, un calo dei redditi reali che non si è visto neanche durante questa interminabile recessione.
Ma la carta vincente di chi si batte contro l’euro è che un governo non più sotto il giogo dell’austerità tedesca potrebbe fare quelle politiche espansive che servono a far ripartire l’economia. Strano che a sostenere queste tesi siano gli stessi movimenti che, non senza qualche merito, si battono a parole contro la casta. Davvero credono che politici lasciati liberi di spendere e spandere si occuperebbero del bene comune e non tornerebbero ad accordarsi lauti compensi? Perché deresponsabilizzare la nostra classe dirigente, perché perdonare i monocolori e i pentapartito sotto i quali il debito pubblico è esploso o i 10 anni di politica economica di Berlusconi che hanno utilizzato la minor spesa per interessi per aumentare altra spesa corrente? È la stessa accondiscendenza che mostra la lista Tsipras, candidato da intellettuali italiani in quanto “greco” perché «rappresenta il Paese che soffre di più per le politiche di austerity». Peccato che la crisi del debito nell’area Euro che ha portato miseria a milioni di europei sia scoppiata perché nel 2009 il deficit pubblico greco si è rivelato essere del 15,6% contro il 3% previsto dai trattati firmati dal governo greco, con politici e banchieri centrali ellenici che avevano truccato i conti.
Ci saranno dunque maggiori tasse in caso di uscita dall’Euro. E non abbiamo considerato le tasse nella transizione, nel passaggio dall’euro alla lira. Ci torneremo.
La Repubblica 07.0.14
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