“Fino a che non verrà meno il testimone, fino a quando non mi mancheranno le forze?”, recita la sua promessa ai ragazzi. Sono loro il viatico migliore per ogni nuovo viaggio. Anche adesso che ha ottantacinque anni compiuti, Piero Terracina se la ripete e parte. Così, appoggiandosi al bastone della memoria, stamattina sarà di nuovo ad Auschwitz-Birkenau. Ci è andato tante volte, in questi vent’anni, ha accompagnato migliaia di studenti. «Però stavolta temo l’emotività», confessa. Il viaggio, organizzato dalla Regione Lazio, cade in un giorno drammaticamente speciale. Il 7 aprile 1944, esattamente settanta anni fa, nella Roma occupata dai nazisti, Piero, che aveva appena 15 anni, insieme a tutta la sua famiglia, il padre Giovanni, la madre Lidia, la sorella Anna, i fratelli Cesare e Leo, lo zio Amedeo, il nonno Leone, furono venduti ai tedeschi, strappati dal loro nascondiglio, e avviati al massacro. Di otto che erano, soltanto lui è tornato. Quello fu il «16 ottobre» dei Terracina. E Piero, l’unico sopravvissuto, settanta anni dopo, è ancora qui per raccontarlo. Accetta di farlo con noi, prima della partenza.
Il primo ricordo di quella giornata è suo padre Giovanni: «Il 7 aprile 1944 era Pesah, l’inizio della Pasqua ebraica, festa della libertà. Noi l’avevamo sempre festeggiata con tutta la famiglia. E quel mattino, anche se vivevamo nascosti, papà ci disse: “Perché stasera non facciamo il Seder tutti insieme (cioè la cena pasquale)? Poi ce ne torneremo ciascuno al suo rifugio”». Il rifugio era un palazzo in piazza Rosolino Pilo, nel quartiere di Monteverde: «Il portiere, rischiando la vita, ci aveva dato le chiavi di un appartamento rimasto vuoto, ma per essere più sicuri ci eravamo divisi: i nonni dormivano a casa sua, noi ragazzi in un vano a metà dello scivolo per il carbone». Il secondo ricordo è Anna, sua sorella maggiore, che va al mercato: «Non aveva ancora ventitré anni, era molto bella. C’era ancora un mercato dietro casa, Anna uscì per andare a prendere qualcosa da mangia- re e un ragazzo si mise a seguirla, facendole qualche complimento. Lei si voltò e disse: “Perché non giri un po’ alla larga?”». I fratelli invece restarono a casa: «Avevano trovato della farina, certo non kosher, e si misero ad impastare i pani azzimi per la cena. Papà intanto stava alla finestra. Se qualcuno fosse entrato nel por- tone, noi ragazzi avevamo una via di fuga: saremmo saltati sul terrazzo, avremmo scavalcato e ci saremmo ritrovati nel palazzo accanto, scendendo giù per le scale, senza farci notare».
Sembra un film il racconto di quel 7 aprile. La vita che continua, fino all’ultimo, anche in mezzo al terrore dell’occupazione nazista. «Uscivamo di casa tutti i giorni, a rischio di essere scoperti: dovevamo procurarci da vivere. Compravamo qualsiasi cosa per rivenderla: saponette, lamette da barba, filo da cucire». Piero aveva persino una bicicletta: «Come potevo tornavo nei posti dove un tempo avrei trovato i miei amici o qualche compagna della scuola ebraica, ce ne era una in particolare anche se, dopo il 16 ottobre, sapevo che non avrei incontrato più nessuno». Vivevano come fantasmi, ma speravano che presto sarebbero stati liberati. «Gli angloamericani erano vicini. A volte penso che se ci fossimo messi in cammino avremmo potuto raggiungerli anche a piedi».
E invece arrivò la sera. C’era anche zio Amedeo: «Era venuto a farci gli auguri». I Terracina si disposero tutti attorno alla tavola e nonno Leone intonò l’Haggadah, il lungo racconto dell’esodo: «Nonno aveva studiato alla scuola rabbinica, era nato in ghetto, nel 1860, si ricordava l’apertura dei cancelli il giorno della presa di Roma». In tavola c’erano le uova sode, il sedano, l’aceto, il sale, un cesto e il pane azzimo che Leo e Cesare avevano fatto al mattino: «Non eravamo ancora giunti al termine della preghiera quando bussarono alla porta. Mia sorella andò ad aprire: ritornò sconvolta, dietro di lei due SS con i mitra imbracciati. Venivano ad arrestare la più pacifica delle famiglie, armati come per un’azione di guerra. Sull’uscio c’era un italiano che li aveva accompagnati. Un altro era rimasto giù al portone.“Se ci indicate dove avete nascosto i gioielli proveremo a convincere i tedeschi a lasciarvi andare”, ci dissero. Anna ci raccontò che uno dei due era il ragazzo che l’aveva seguita al mattino, ci aveva venduto per cinquemila lire: eravamo in otto, un bel bottino».
Li portarono in carcere a Regina Coeli: «Sentii i cancelli chiudersi, ci misero con le spalle al muro, uno per uno ci schedarono e ci presero le impronte digitali, per me fu un trauma terribile, uscii piangendo, papà se ne accorse e sentì il bisogno di rivolgere a noi figli delle parole: “Ragazzi, possono accadere delle cose terribili, mi raccomando, qualsiasi cosa accada, siate uomini, non perdete mai la dignità”». Le ultime frasi umane, quella notte, le pronunciarono dei detenuti: «Cercarono di farci coraggio, ci dissero che gli alleati ci avrebbero liberato da un momento all’altro, uno di loro aveva ricevuto un pacco con delle cose da mangiare, che divise con noi». Quella fu la cena di Pasqua. Il giorno dopo per i Terracina iniziò la deportazione, prima a Fossoli e poi ad Auschwitz-Birkenau, dove Piero tornerà oggi. «Per fortuna non sarò solo», si schermisce immaginandosi già circondato da- gli studenti, davanti alla «rampa» dove finivano i binari: «Mia mamma ci abbracciò, ci pose le mani sul capo un attimo soltanto per darci la sua benedizione. Poi, vedendo arrivare le SS con i cani, ci disse: “andate via, andate via”. Aggiunse: “non vi vedrò più”. Aveva capito tutto».
Ma suo figlio Piero è qui a raccontarlo. A porre le mani sul capo dei ragazzi a regalare la sua testimonianza: «Oggi non temo per me, ormai prossimo al traguardo, ma per i giovani, ho paura per le derive che vedo riaffacciarsi in Europa, le tensioni si scaricano sempre sui più deboli: il rispetto, la dignità, la libertà, la solidarietà non sono dono di dio, ma prodotto degli uomini, bisogna difenderli, non voltarsi dall’altra parte».
L’Unità 07.04.14