Le new town? «Noi le vogliamo demolire». L’affermazione è forte soprattutto perché viene dal giovane segretario della Fillea, Emanuele Verrocchi, ovvero dal sindacato delle costruzioni della Cgil aquilana, che nel senso comune dovrebbe pensare piuttosto a costruire che a propugnare il «consumo zero di territorio». Eppure lui va giù deciso: «Demolire le new town non è uno slogan, stiamo lavorando a un progetto serio su questo, sapendo che ancora servono e che ci sono le assegnazioni in corso per le persone, come i single, che erano state escluse nella fase dell’emergenza». Però il punto è che «secondo noi il futuro de L’Aquila va in un’altra direzione rispetto al Progetto Case. L’Aquila è città d’arte, quella è la sua vocazione, come sua vocazione è la difesa della natura, del territorio che ha intorno, su queste basi può rinascere». E non basta: «Le new town sono state il simbolo della dispersione, dell’isolamento delle persone e delle famiglie che con il terremoto hanno perso non solo i propri cari e la casa ma anche il senso della loro socialità. Demolirle ha un senso anche rispetto al trauma psicologico, ai disagi psichici generati dal sisma».
Percorriamo via Roma, zona rossa, una delle strade del centro storico trasformata dal sisma in una «Cambogia». Difficile dire cosa risorgerà al posto dei cumuli di pietre in cui si sono trasforma- ti i palazzi antichi, pero’ si apre il cuore a San Pietro a Coppito: la piazza, la chiesa con i suoi leoni romanici e’ stata uno dei simboli della distruzione delle cose piu’ amate. Ora, attraverso i bandoni si vede il restauro, il cumulo dei marmi non è più tristemente a terra. Cantiere del Mibac, come tanti altri cantieri partiti grazie ai Beni culturali, che si sono dimostrati, contro ogni previsione del- le ideologia mercatiste e emergenziali, l’istituzione più efficiente, pur con le forze limitate, perché non c’è persona- le in più . Una buona notizia per gli aquilani, in questo quinto anno di passione, e’ stata la riconferma di Fabrizio Magani, il direttore generale per l’Abruzzo, decisa dal ministro Franceschini.
In piazza Duomo c’è Giovanni Lolli, esponente Pd che, dal 2009, dentro e fuori il Parlamento, ha svolto il ruolo di «Wolf» , il risolutore di problemi di Pulp Fiction, dai finanziamenti, alle tasse, alla psicologia, quando la confrontation istituzionale portava sull’orlo di una crisi di nervi. Così quando gli chiedo cosa pensa della proposta di demolire le new town sbotta in dialetto: «E mo’ quantu ce costa?». Per Lolli il principale difetto del Progetto Case è stato «che era già pronto, calato su L’Aquila e non modulato sulla città».
Verrocchi non si scompone. Demolire i prefabbricati che non servono, mentre «i pilastri antisismici possono venire utili per i servizi o i parcheggi del parco naturale». Idee ancora provvisorie, sostenute, però, da una visione che il segretario nazionale della Fillea, Walter Schiavella, fa propria: «Sostenemmo fin da allora che si deve privileggiare il recupero, che era sbagliata l’idea di Berlusconi di città satellite non temporanee, che si sono dimostrate uno spreco di denaro, sono di qualità non alta, hanno consumato territorio, hanno costi elevati di gestione e, parallelamente, hanno inciso su un troppo lento ripristino del centro».
Gianni Di Cesare, segretario regionale della Cgil, ritorna al 2009: «Quando Berlusconi disse agli aquilani “dalle tende alle case”, non ci fu partita. Non ci potevamo opporre, abbiamo impedito che venissero costruite a piazza d’Armi, che e’ parco urbano». Però, aggiunge, Di Cesare, «le new town hanno anche frenato altri fenomeni negativi, come il proliferare di soluzioni abusive, che pure ci sono state. Oggi e’ difficile imporre a un pensionato da 600 euro al mese di demolire la casa costruita in emergenza, magari dove c’è l’acqua o su terreno agricolo».
È un’idea che «va benissimo» per l’urbanista Vezio De Lucia perché «le new town sono un obrobrio da tutti i punti di vista» e «il comune non riuscirà mai a gestirle». Spiega l’architetto Antonio Perotti che «L’Aquila, prima del terremoto, aveva 60 frazioni, ora ne ha 100». Questo significa – spiega De Lucia – «che non si riesce a installare una edicola, figuriamoci un asilo nido o una fermata dell’autobus». Demolire sarebbe una operazione di «saggezza urbanistica enorme e l’Italia un grande Stato se lo facesse, perché è una impresa che richiede molte risorse finanziarie». Ed è chiaro che «non si devono togliere risorse al centro storico». Però sapere dove si vuole andare è importante, «una volta – sospira De Lucia – questo si chiama- va pianificare».
Cinque anni dopo tornano, per la fiaccolata, i genitori dei ragazzi rimasti sotto le macerie, nel pomeriggio incontrano i parenti degli aquilani e gli altri familiari delle catastrofi che si sono compiute per colpa e negligenza di istituzioni e società. Alcuni, però, quest’anno hanno scelto di restare a casa, di non rinnovare il dolore terribile di quella notte. C’è, arrivata dalla Grecia, la famiglia di Vassilis Koufolias, che morì a Via Campo di Fossa e dove si ferì anche sua sorella, che dal 2009, passa da una operazione all’altra. Sergio Bianchi, che ha tatuato sul braccio il nome di suo figlio Nicola, è venuto a L’Aquila perché con i proventi del libro «Macerie dentro» ha istituito due borse di studio per giovani geologi.
Antonio Di Franco è un piccolo imprenditore del restauro edile che lavora a L’Aquila. Ha letto il nostro articolo sui cantieri, sul lavoro nero della manodopera portata dalla Romania, sulla necessita’ dei controlli, per evitare altre tragedie: «Cruciale – ci dice – sarebbe responsabilizzare i tecnici, ingegneri e architetti, che hanno la direzione del cantiere e i proprietari. Loro devono sa- pere cosa succede in casa loro».
L’Unità 06.04.14
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L’Aquila cinque anni dopo Il futuro è un cantiere, di Jolanda Buffalini
Barak Obama aveva i capelli neri, cinque anni fa, quando arrivò fra gli aquilani sconvolti e frastornati, in fila nelle tendopoli per ricevere dalle mani dei volontari pranzo cena e colazione ma espropriati del loro proprio destino. I lavori fervevano ma non per loro. Cinque milioni furono spesi solo per la suite presidenziale e le altre stanze in cui i grandi del- la terra sopraggiunti per il G8 non abitarono, gadget e accappatoi compresi. Cinque anni dopo, insieme ai capelli del presidente americano, si sono imbiancati quelli di molti terremotati, i pensionati giocano a carte sulle panche delle fermate degli autobus, i bambini sono cresciuti nei Musp, cioè nei moduli provvisori scolastici, e non conoscono la loro città. Gli adolescenti passano il tempo libero nei centri commerciali oppure sul corso Federico II, che si popola il venerdì notte in una atmosfera surreale di musica e buio inquietante. Gli adulti pagano il mutuo della casa distrutta e intanto si arrabattano fra le bollette astronomiche del progetto Case, che avrebbe dovuto essere a basso consumo energetico e invece divora gas, perché i pannelli solari non sono mai stati attivati. Meno male che ci sono i pensionati, i di- pendenti pubblici e gli studenti (dell’università, del conservatorio, dei centri di ricerca), altrimenti al centro dell’Italia ci sarebbe un buco nero di rovine: le imprese chiudono, precari e free lance si disperano, i commercianti, quando non sono falliti, si sono sparpagliati fra centri commerciali e miriadi di costruzioni che devasta- no il territorio. Sono 37.000 gli aquilani in cura per disagio psichico su una popolazione che, prima del sisma, contava 70.000 persone.
Eppure l’atmosfera è cambiata, per la prima volta dopo quel maledetto 6 aprile 2009. Si sono aperti 200 cantieri nel centro storico, nelle periferie in cemento armato gli abitanti (46.000) sono rientrati nelle case. Resta il grosso da fare, l’operazione più delicata, far tornare a battere il cuore dell’Aquila, quello dei vicoli e delle piazzette su cui affacciano i palazzi anti- chi, le chiese dei Quarti di fondazione medievale. Perché è per quelle mura antiche che si cerca di non emigrare, è lì che si nasconde il segreto della qualità della vita di una città bellissima. L’operazione per far tornare a pulsare le strade dei 56 piccoli centri del cratere.
Molti anziani temono che non faranno in tempo a rientrare nella loro strada, nella loro piazza, nella loro casa, ma anche a loro fa bene vedere il braccio corto delle gru volteggiare, sentire il rumore della fiamma ossidrica, vedere i restauratori sui ponteggi. Il geometra informatico Maurizio Tollis, del dipartimento per la ricostruzione, mostra ai visitatori del «Salone del- la ricostruzione» un sito strepitoso del Comune dell’Aquila dove con un clic puoi vedere dove sono collocate le gru e da dove partiranno i lavori per i sotto servizi, final- mente appaltati, la cifra dei contributi erogati e tante altre informazioni che girano anche su tablet, facilitando il lavoro di chi è in cantiere o fuori sede. «Ora ò’importante – dice Enrico Ricci dell’Ance regionale – è la certezza del flusso dei finanziamenti per poter programmare». Giovanni Legnini, che ha la delega del governo per la ricstruzione, indica la cifra di un miliardo l’anno.
Il giro nei cantieri fa scoprire la realtà contraddittoria di un paese, l’Italia, in cui convivono serietà, abnegazione e professionalità con le furbizie dell’avidità e dello sfruttamento più ingiusto. Emanuele ha 25 anni e un contratto di apprendistato ma fa l’apprendista di se stesso, poiché lavora in una ditta che ha un solo dipendente, lui. Dovrebbe imparare e fa tutto da solo. La paga è bassa perché le ore dichiarate sono inferiori a quelle reali, 800 euro, ma il datore di lavoro gliene mette in tasca ancora meno, 600. Prima faceva il manovale con contratto a progetto, e ha perso il diritto alla disoccupazione, prima ancora aveva un contratto da metalmeccanico per montare ponteggi. Questo consente al padrone di risparmiare sulla formazione alla sicurezza, obbligatoria nell’edilizia, e sulla cassa edile, che tutela i lavoratori delle costruzioni quando un cantiere chiude. Emanuele si è stancato, ha preso il coraggio a due mani e ha bussato, timidamente, alla porta della Cgil. Per fortuna ha incontrato Cristina Santella che si è presa a cuore il suo caso: «anche io – racconta Cristina – sono entrata così nel sindacato». «È il lavoro grigio – spiega Emanuele Verrocchi, segretario Fillea provinciale – e proprio ora che i cantieri sono partiti, che all’Aquila ci sono 10.000 operai, bisogna alzare la guardia».
Ma proprio l’alto numero dei cantieri rende ridicolmente insufficiente il numero degli ispettori. Racconta Cristina di un gruppo di operai romeni giovanissimi che lavorava in un cantiere vicino al Comune: «Mi hanno chiesto dalla finestra dell’acqua. Erano arrivati direttamente dalla Romania, al nero. La loro vita si svolgeva fra l’alloggio e il posto di lavoro, come schiavi. Quando hanno capito che li avevamo itercettati li hanno rispediti a casa».
San Pietro Apostolo a Onna, è il primo cantiere nel borgo vecchio che al terremoto ha tributato 49 bare. È partito a giugno 2013 ma, racconta il capocantiere Peppe Di Leo, «ci sono voluti mesi prima di avere l’elettricità, anche se il palo dell’Enel è a 6 metri». Di Leo è socio della cooperativa «Internazionale» di Altamura, lavorano insieme alla impresa di restauro di Reggio Emilia Tecno. «Qui gli ispettori – dice – possono accomodarsi quando vogliono, abbiamo tutti in regola». Perchè vi chiamate «Internazionale», chiedo? «Non per l’Inter – dice lui – ma per l’internazionale socialista. Noi siamo di tradizione comunista e io sono orgoglioso di questa società che riesce a stare al passo e a dare lavoro». Si sono fatti le ossa nel terremoto dell’Umbria e poi al Petruzzelli. Gli operai vengono come lui, dalla Puglia o da Reggio Emilia. Come Stefano Savi, giovane restauratore marchigiano. Ma, continua Peppe, «bisogna fare i salti mortali perché succede che non paghino lo stato avanzamento lavori quando devono. Noi, però, per poter lavorare, dobbiamo essere in regola con i con- tributi». Aggiunge Silvio Amicucci, Fillea Abruzzo: «L’imprenditore che non viene pagato rischia di finire nelle mani di chi ricicla denaro sporco».
Il piccolo ma «rognoso» cantiere di San Pietro Apostolo (XII secolo) racconta molto della ricostruzione aquilana. Il 34% del- le 1634 imprese che lavorano nel Cratere viene da fuori e corrisponde il 45% di una massa salariale che nel 2013 è stata di 80 milioni. È un dato che racconta due cose: la prima è che le imprese del territorio non si sono adeguate alla realtà del terremoto, «hanno puntato – spiega Silvio Amicucci – sulla costruzione del nuovo, quando ormai, a parte il terremoto, è chiaro che si deve puntare alla riqualificazione». L’altra cosa è un interrogativo, rispetto al- la congruità fra mole dei lavori avviati e salari corrisposti. È finalmente operativo un tavolo di monitoraggio fra prefettura e parti sociali, era stato istituito da Franco Gabrielli ma è entrato in funzione solo ora, grazie alla sensibilità del nuovo prefetto Alecci. Un osservatorio che previene anche le infiltrazioni mafiose, all’ultima riunione è stato segnalata una impresa del sud che cambia spesso la sede legale, dove si abusa della cassa integrazione e molti lavoratori sono in nero. Magari non ha nulla che fare con la criminalità organizzata ma gli approfondimenti sono d’obbligo.
L’Unità 05.04.14