La crescita del debito pubblico e altre risorse per finanziare il taglio del cuneo fiscale. Sono queste le due spine che il governo dovrà estrarre prima che la manovra economica messa in campo venga effettivamente varata. Martedì prossimo, infatti, il consiglio dei ministri darà il via libera al Def, il Documento di economia e finanza. La settimana successiva, probabilmente il 16, sarà la volta del decreto per ridurre l’Irpef a chi guadagna meno di 28 mila euro l’anno.
Ma appunto, in vista di questi due appuntamenti, Tesoro e palazzo Chigi devono mettere mano a questi due nodi.
Soprattutto per quanto riguarda il debito, infatti, il Def potrebbe essere accompagnato per la prima volta — dopo l’approvazione del cosiddetto Fiscal compact — da una relazione da trasmettere alla Commissione europea. In cui si spiega perché lo stock del debito potrebbe non scendere — come fissato dai trattati — di un 1/20 nella parte eccedente il 60%.
A Via XX Settembre, dunque, stanno prendendo in esame un problema che fino ad ora era rimasto “in sonno”. Sono ormai in corso di definizione i calcoli sui debiti che gli enti locali (comuni e regioni) hanno contratto in passato e che non sono mai stati conteggiati anche per la loro indecifrabilità. Una quota di quelle obbligazioni, quella in conto capitale (il 20 per cento del totale) andrà a far salire il nostro stock complessivo. Si tratta, osservano alla presidenza del consiglio e al ministero dell’Economia, di una ulteriore eredità ricevuta dal passato. Cui però è necessario far fronte subito. Questo “ricalcolo” richiede l’attivazione della procedura fissata dal Fiscal compact e recepita nella legge costituzionale del 20 aprile 2012. La variazione — secondo i tecnici di Palazzo Chigi e del Tesoro — sarà comunque minima ma dovrà essere votata a maggioranza assoluta dal Parlamento con l’invio di una relazione — insieme allo stesso Def — alla Commissione europea. Un passaggio che potrebbe presentare delle complicazioni soprattutto al Senato, dove la coalizione di governo ha numeri meno sicuri e il raggiungimento di una maggioranza “qualificata” non sempre è stata garantita.
L’attivazione della procedura “europea”, però, non bloccherà il piano di Palazzo Chigi sul cuneo fiscale. «Le coperture — ripete il premier — ci sono». Il progetto si articola su tre punti fondamentali le risorse per coprire i circa 6,5 miliardi necessari verranno reperite quasi esclusivamente dalla spending review. Quel “quasi” è ben presente a Palazzo Chigi. Secondo i conteggi fatti a Via XX Settembre, al momento si può arrivare a 5 miliardi. Per salire alla quota dei 6,5 miliardi necessari a finanziarie la sforbiciata del cuneo fiscale e mettere in busta paga a 10 milioni di italiani circa 80 euro al mese, il governo dovrà trovare anche altre risorse. E le scelte non potranno che avere un carattere “politico”. Proprio di questo dovranno parlare il presidente del consiglio e il titolare dell’Economia Padoan (forse già oggi).
Una quota di fondi allora potrebbe non essere pescata nei “tagli” di spesa — obbligatoriamente strutturali — ma (esclusa ogni forma di nuova tassazione) nel recupero dalla lotta all’evasione- elusione fiscale. Di sicuro, niente aumento del rapporto deficit/ pil dunque che per ora dovrebbe rimanere nelle aspettative al 2,6% e quindi nessuna revisione che comporterebbe — come per il debito — una comunicazione formale a Bruxelles.
Per il presidente del consiglio, un altro caposaldo sono le pensioni: «Non si possono toccare». Ma ci sono altri comparti che sicuramente verranno messi a dieta. Sono tre: la Sanità (risparmi per circa un miliardo, ma potrebbero crescere), beni e servizi, e infine gli stipendi dei dirigenti pubblici, a cominciare dai ministeriali. L’attuale tetto di 311 mila euro annui scenderà a 270 mila (come il presidente della Repubblica) per i vertici delle pubbliche amministrazioni. Ma verranno introdotti almeno altri tre scaglioni: 190 mila per i capi dipartimento, 120 per i dirigenti “di prima” e 80 mila per i dirigenti di seconda.
Restano poi in vita due possibili soluzioni per la distribuzione concreta dei famosi 80 euro al mese. Il primo metodo è il tradizionale taglio dell’Irpef per i redditi fino a 28 mila euro. La platea dei benificiati sarebbe di circa 10,7 milioni di italiani. Questa ipotesi presenta però due contali:
troindicazioni: c’è un effetto trascinamento della riduzione irpef a favore dei redditi fino a 55 mila euro. E al contrario non offre alcun beneficio gli incapienti — i senza reddito — e coloro che percepiscono fino a 8 mila euro annui.
La seconda ipotesi — nonostante le smentite dei giorni scorsi — resta quella del “bonus”. Che a Palazzo Chigi preferiscono chiamare “contributi”. In questo caso verrebbero coinvolti anche gli “incapienti” ma si allargherebbe sensibilmente la platea,
tanto da dover abbassare il tetto dei beneficiatari a un reddito massimo di 25 mila euro annui. La strada da imboccare entro i prossimi 10 giorni, dunque, sarà probabilmente quella in grado di rispettare il budget disponibile.
Infine c’è un altro aspetto che a Via XX Settembre stanno già valutando. Ossia l’utilizzo del margine che al momento ci concede il deficit. Il dato di partenza è che Renzi non vuole sforare il parametro del 3% nel rapporto deficit/pil. Però si stagliano già all’orizzonte delle spese per il 2014 che imporranno un intervento. Il Fondo per le calamità, ad esempio, è vuoto. Va ricolmato per affrontare in autunno eventuali emergenze. Non solo. Arrivano a scadenza i lavori che fanno seguito alle calamità naturali del 2013. Altra spesa. Per non parlare delle cosiddette “varie ed eventuali” e di alcune crisi aziendali che spingerà il governo ad attivare la cassa integrazione. Per questo il ricorso al deficit con un aumento fino al 2,9% del Pil potrebbe essere autorizzato nei prossimi mesi. Magari in autunno.
Anche in quel caso ci sarà bisogno di un voto a maggioranza qualificata alla Camera e al Senato e poi di una comunicazione a Bruxelles. Ma questo fa parte della “seconda fase” del governo Renzi. Anche perché a Palazzo Chigi tutti sperano il calo dei tassi possa mettere a disposizione 2-3 miliardi in più. E che con gli 80 euro al mese inserite nelle buste paga e con il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese, il Pil possa avere un’accelerazione nell’inversione di tendenza già evidenziata all’inizio dell’anno. Il premier insomma scommette sulla ripresa sperando che non sia solo un fuoco di paglia.
La Repubblica 06.04.14