Trainato dai cavi della Capitaneria, ma soprattutto dai cavilli del Tar, il mostro raccontato dagli ambientalisti — lo spavento, l’orrore, il pericolo — ha perso il fascino marinettiniano. Già dalle tegole rosse della Giudecca, alle sette del mattino, non sembra che sia tornato a penetrare Venezia, con la goffa insolenza della prima volta. Ma che invece se la stia portando appresso, che stia insomma trascinando con sé questo tappeto di case sull’acqua che gli hanno steso ai piedi. Ma è all’approdo che il mostro si rivela fantozziano distruggendo il ponte mobile di legno che chiamano finger, un incidente da nulla ma carico di simbologia, uno di quei presagi ai quali i marinai una volta davano la stessa importanza che noi diamo alla meteorologia. Di sicuro quel finger che si rompe somiglia alla bottiglia che non si rompe nel film di Paolo Villaggio quando la contessa Serbelloni Mazzanti Vien del mare (non) vara la nave.
D’altra parte, quando lenta, ostinata e inesorabile, un’ora prima sfiorava i palazzi, le cupole e i campanili più agili e ariosi del mondo, noi, che da un’altana osservavamo il suo bocca a bocca con Palazzo Ducale, San Giorgio Maggiore, la chiesa della Salute, avevamo la netta impressione che la nave fosse Venezia, e che la città senza radici e senza identità fosse invece questa Msc Preziosa, con il suo esotismo omologato, il dominio di un ordine finto al di là di ogni misura e di ogni codice, il triangolo delle Bermude delle identità perdute delle città del mondo ormai alla deriva, il luccicante spazio-spazzatura inventato dall’architetto Koolhaas che proprio quest’anno dirigerà la Biennale: 140mila tonnellate di junkspace, 68 metri d’altezza, 4.345
passeggeri, 1.751 cabine, 97 suite con maggiordomo personale in tight e guanti bianchi, il teatro Platinum con 1.600 posti, 4 piscine, 12 jacuzzi, 9 ristoranti (uno Eataly) e 26 ascensori per portare Astolfo sulla Luna.
È sbucata dal buio la nave più grande d’Europa: 333 metri di puntini luminosi e l’insegna “Msc Preziosa” accesa sul ponte più alto. Molto presto, però, il chiarore del cielo ha sbiadito le luci e ha mostrato soprattutto i fumi dei suoi dodici camini, forme nere disegnate dal vento che solo apparentemente sono uguali perché invece ogni nave ha le sue, come fossero impronte digitali. «A me non pare King Kong a New York» mi ha detto, delusa, una vecchia signora tedesca che con me si è impossessata di questa torretta. È vero che «non sbanda, non spaventa e non si inchina » come mi dirà dopo la guardia costiera che l’ha scortata, ma la Preziosa è sicuramente una non-nave già quando scivola tra le lingue di sabbia della bocca del Lido senza quel movimento agile e rotondo “da cigno” che fece innamorare Hegel. «Lo strumento la cui invenzione fa il più grande onore tanto all’arditezza quanto all’intelligenza dell’uomo» è qui umiliato dal suo stesso armatore italiano che lo ha ridotto a “fun ship”, con quello scivolo, pensate!, chiamato “vertigo”: «120 metri di curve e tornanti da brivido». Ed è umiliato anche dalla burocrazia perchè il Tar non è il rullo di legno e la slitta che Maometto applicò alle sue navi quando, invece di solcare il mare, scalarono la montagna per espugnare Bisanzio, ma è il torpido trucchetto all’italiana, la proroga, il rinvio col cerone di legalità. Sembra il tanko dei serenissimi finalmente a San Marco. È il futurismo in pretura.
Il divieto che fu imposto dal ministro Clini, governo Monti, resterà sospeso finché non sarà reso praticabile un percorso alternativo. E le grandi navi potranno continuare a baciare San Marco. «Vuol dire che tornerà tutto come prima e di nuovo il sabato ne passaranno 6, 8, 10» mi dice Mara Sartore, una bella e giovane signora veneziana, editore di raffinate guide d’arte in inglese. E racconta: «All’ultimo piano dell’ufficio alla Giudecca ogni volta che passava una nave tremavano i vetri, le porte e il pavimento. Non un terremoto, ma una vibrazione, come la metropolitana».
E però Venezia non si divide tra futuristi e passatisti. E infatti i pamphlet della Marsilio di Cesare De Michelis a difesa della grandi navi non odiano come i marinettiani «la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell’imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite». E i “No grandi navi” non sono solo i conservatori della città-cartolina, il tardo Strapaese di Celentano e gli estremisti che sui muri scrivono «meno città-vetrina e più vetrine rotte». Non è l’ideologia che rende la battaglia aspra e violenta, con cifre truccate e foto apocalittiche ottenute con grandangoli e zoom. E non è neppure lo stereotipo del carattere litigioso dei veneziani, facili all’acqua alta anche in testa, che impedisce di scegliere una rotta alternativa per le grandi navi. «A Marghera — mi spiega Marino Folin presidente della Fondazione Venezia 2000 — c’è un porto, ci sono già collegamenti, la ferrovia, gli autobus, e da lì puoi portare i turisti sul Brenta, a Verona, a Vicenza, in montagna ». Ma gli altri, guidati da Paolo Costa, presidente dell’autorità portuale, vorrebbero invece, scavando canali già esistenti dietro la Giudecca, evitare solo San Marco e fare ancora approdare le navi nellaStazione Marittima. Tutte le soluzioni — sono tante — comportano qualche anno di lavori e qualche rischio per la laguna. Ma la battaglia non è astratta: in gioco ci sono forti interessi economici e due modelli di città. Da un lato il turismo di massa e dunque gli albergatori, i commercianti, gli abitanti che affittano le case di famiglia. Per loro ogni anno le grandi navi sbarcano quasi un milione e ottocentomila turisti su un numero complessivo che va dai 20 ai 22 milioni. E dall’altro lato c’è la Venezia dell’impiego, dell’università, delle fondazioni che considerano le grandi navi come la tela squarciata di Fontana, la fine dell’arte, della bellezza di Thomas Mann, del tempio del turismo d’élite, del «vivo tra Venezia Parigi e New York». La contrapposizione (ripeto: di interessi) è il vero mare sul quale ieri hanno ricominciato a navigare le grandi navi. Fino a quando?
Seguo la Preziosa lungo i giardini e sino alla riva degli Schiavoni, nel bacino più bello del mondo, di fianco al palazzo Ducale e dunque quasi a San Marco. E per la verità mi pare
un battibecco anche il confronto ravvicinato tra le due scienze del turismo sull’acqua, il fitto dialogare tra le zattere e le terrazze del Gritti e del Danieli con i 18 ponti che portano i nomi di altrettante pietre preziose. Non è vero che si fronteggiano la storia e la modernità ma due tecnologie alberghiere: quella del superlusso falso che galleggia e quella del superlusso vero dell’Hilton Molino che nella terra imbevuta d’acqua è invece piantato con tronchi d’albero. Anche la piccola grazia delle tante pensioni sconfigge la sazietà sensoriale del troppo, l’effimera illusione da nababbo offerta dal Grand Hotel alla Greta Garbo che non ha nemmeno la magia rotatoria della porta girevole che include ed esclude, sotto a chi tocca, avanti un altro.
Sono passate le 18 quando a San Marco alzo gli occhi e guardo avanzare senza alcun pathos di marzianità questo albergo che ora ripercorre il cammino a ritroso facendo scappare le piccole barche e i motoscafi come il fuoco che insegue le stoppie perché sposta onde, rimescola la laguna e non può essere fermato mai. Porta su di
sé il graffio di quel finger distrutto e adesso i fumi sono più chiari. Quando scivola da canale della Giudecca non mi viene in mente l’invasione degli ultracorpi ma il tram che da ragazzo, nella Roma che visitavo con mio padre, vedevo arrivare sino al Pantheon. Ancora oggi a Roma i Suv ingombrano e rendono incongruo il miracolo dei vicoli più affascinanti d’Italia perché la convivenza tra modernità e storia è bellissima ma ha bisogno della giusta distanza, quella dei parcheggi per esempio: arrivi in macchina, ma a piazza Navona entri a piedi. E a piazza Armerina non vai in Vespa sui mosaici. Ezio Micelli che a Venezia è stato per tre anni assessore all’Urbanistica dice che «la giusta distanza c’è persino negli outlet che sono pedonalizzati con un format vincente sempre uguale: a Barberino, a Serravalle, a Noventa… «. Perché non dovrebbe funzionare anche con i turisti che arrivano a Venezia via nave?
Sulla Preziosa mi hanno vietato di salire. Volevo vedere Venezia dalla nave, mi immaginavo uno spettacolo mozzafiato, il volo d’uccello di Jacopo de’ Barbari che, nel 1500, non aveva elicotteri. Ebbene non è così. Interrogo i passeggeri che non sono tutti stranieri. Molti mi dicono, ridendo, le stesse cose: «È come vedere Venezia in televisione», «come su Youtube », «come da un palco a teatro ». Mentre la nave avanzava stavano affacciati sui ponti a scattare foto con i telefonini. Ora però solo un signore abbronzato mi dice: «Ho visto San Marco dall’alto ma non dal cielo». È un’immagine inautentica ma straordinaria di cui pochissimi si accorgono forse perché «come ha spiegato Benjamin con l’architettura abbiamo tutti un rapporto distratto»
mi dice Manuel Orazi che è uno storico dell’archiettura.
Vederli sbarcare è come assistere a un naufragio. Sono più di tremila. I loro occhi, che sono stati sottoposti ad un’orgia decorativa senza precedenti, mi sembrano vuoti. Si capisce che vorrebbero tornare indietro, che fuori dalla nave non sanno dove andare. Provo a dire che Venezia è molto più bella dal campanile di San Giorgio, che è alto otto metri meno della Preziosa ed è del Palladio: «Di chi?». Fruttero e Lucentni dicevano che i croceristi «sono una truppa votata al macello culinario». Domando: come va lo stomaco? Un napoletano vomita: adesso che è a terra finalmente soffre il mal mare. Poi canta Califano: «Guardo Venezia e vedo Napoli / Gondoliere ti prego portami a Napoli / una gondola lì non corre pericoli».
La Repubblica 06.04.14