C’ero stato a L’Aquila nell’estate del 2011 e ne avevo ricavato un’immagine tragica: in piazza del Duomo a mezzogiorno stagnava un silenzio irreale, solo il clèng di un’imposta che periodicamente batteva sul ferro d’una grondaia — mancavano i cespugli spinosi rotolati dal vento e saremmo stati in pieno western, quando il cowboy entra nel villaggio abbandonato. L’erba cresceva alla base dei portici. M’ero fatto l’idea che il centro non sarebbe rinato mai più, anzi che non avesse più voglia di rinascere; un mio ex studente, alla frase conformista «un capoluogo di regione non può morire», aveva risposto «perché no? adesso c’è internet… ci servono case, centri commerciali, strade a scorrimento veloce, ma che ce ne facciamo di una città?». Un embrione di metropoli diffusa senza metropoli: questo sembravano, arrivandoci di sera, i diciannove insediamenti periferici che avevano sostituito il primitivo progetto dell’Aquila 2 — un mare di luci con un buco nero in mezzo. Tra le “casette di Berlusconi” gli anziani si lamentavano che non ci fosse tessuto sociale, rassegnati a non vedere mai più l’Aquila a cui erano abituati («facciamo in tempo a morire dieci volte»).
Ora, a quasi tre anni di distanza, l’impressione è stata diversa e devo fare ammenda del mio pessimismo apocalittico: qualcosa si sta muovendo, nel centro si vedono finalmente le gru, qualche bar ha riaperto e a mezzogiorno c’è il pieno degli operai che si mangiano un panino. Impacchettati in varie forme, i palazzi assomigliano a un complicatissimo meccano. La sera, soprattutto nel fine settimana, centinaia di ragazzi occupano le strade e le piazzette, mangiano la frittata del Boss e si bevono un mojito da Farfarello. Alcuni adolescenti hanno preso l’abitudine di forzare le transenne per organizzare festicciole nelle case disabitate o nei negozi vuoti, come se giocassero al covo dei pirati o alla casa sull’albero. Sono stati i ragazzini (quelli che al tempo del terremoto avevano tredici-quattordici anni) a riappropriarsi per primi del centro. Poi si stancano, è ovvio, perché è comunque deprimente passeggiare tra ponteggi e saracinesche abbassate, trovarsi il passo sbarrato appena si esce dalle vie principali, vedere dovunque militari che (fortunatamente) controllano. Sul Corso c’è una grande foto con la distesa delle bare. Una copisteria sventrata ha ancora il calendario appeso col foglio di aprile 2009. Quel che c’era da prelevare dalle case è stato prelevato, con o senza autorizzazione; a spiare dalle finestre o dai portoni
socchiusi si intravedono gli interni fitti di tubature come polli farciti. Tutto è stipato ma pulito, le impalcature brillano alla luce della luna, tutto è pronto per partire; «Abbiamo perso tre anni», mi dice un docente, «così doveva essere nel 2011».
Tra il 2011 e il 2012 c’è stata la grande depressione: finita l’adrenalina dell’emergenza col naturale corollario di un patriottismo reattivo («han passato la vita a parlar male dell’Aquila, che se ne volevano andare a tutti i costi, e mo’ gli ha preso la passione di riaverla»), lo scontro permanente tra enti locali e protezione civile aveva creato una situazione di insopportabile immobilità. Chi poteva trovava soluzioni fuori: a Roma, a Pescara, dovunque pur di non assistere all’agonia. Una finanziaria pensò di sfruttare il momento speculando sul desiderio di fuga: compriamo a poco, accediamo ai fondi per la ricostruzione e vendiamo a molto. Ma non ha funzionato granché, gli aquilani alla fine si sono mostrati restii a vendere: i benestanti soprattutto, quelli delle seconde e terze case, hanno potuto permettersi di aspettare. Chi di case ne aveva una sola, invece, è rimasto strozzato dai ritardi: hanno i soldi in banca, cioè il consorzio a cui appartengono ha già i soldi stanziati ma non può spenderli. Tecnici e politici non riescono a decidere se, per le abitazioni del centro, convenga abbattere e ricostruire salvando gli elementi architettonici di pregio, oppure restaurare l’esistente, con una spesa maggiore e minore garanzia di anti-sismicità. Tutela identitaria contro sicurezza, e mentre si dibatte molti ex residenti sono arrivati all’esasperazione. Ho detto che qualcosa si sta muovendo, ma certo non senza contraddizioni e lungaggini ingiustificate.
Non c’è aquilano che non abbia un episodio di corruzione da raccontare, o una storia di ripicche, meschinità e privilegi. Scelte arbitrarie al momento dell’esproprio dei terreni agricoli, vendette consumate a spese del vicino o del concorrente; aziende amiche favorite nell’esecuzione dei ponteggi, resistenze campanilistiche e vecchie ruggini che hanno impedito agli imprenditori locali di consociarsi; le incastellature pagate un tanto a nodo, col risultato che certi portici sembrano un ricamo di oreficeria; fino agli umanissimi trucchi sullo stato di famiglia per ottenere una “casetta” più grande. Minime o organizzate illegalità che offendono di più se si ha l’impressione dell’impasse; le accuse si sommano, incontrollate, le polemiche fioriscono tanto più veementi quanto più imprecise. C’è un generale problema di comunicazione, le autorità mollano le notizie col contagocce e ognuno ci aggiunge del suo; l’ansia di chi ti parla è palpabile, il trauma non è stato riassorbito, i danni psicologici a lungo termine sono ancora da misurare. Chi ha vissuto nelle tende non riesce a tacitare del tutto il rancore per chi, “beato”, se ne stava negli alberghi della costa; le solidarietà si incrinano, nei criteri di assegnazione delle “casette” non veniva contemplata la provenienza: antichi vicini abitano a venti chilometri di distanza, mentre quello della porta accanto è uno con cui non avevi nessuna consuetudine. È dura, fra i giovani è raddoppiato il consumo di alcol, i pusher della droga considerano L’Aquila una piazza remunerativa.
Vado alla Facoltà di Lettere, tra i colleghi con cui ho lavorato per vent’anni; dopo l’esilio forzato in una sede provvisoria, ora stanno in un palazzo nuovo e centrale le cui fondamenta erano state gettate prima del terremoto. Anzi la crescita del palazzo, la dedizione di ingegneri e operai, sono state un motivo di consolazione negli anni bui, uno spiraglio di futuro. Anche qui l’umore è migliorato, pur tra le critiche: al sarcasmo nichilista si è sostituita una cauta progettualità. «In fondo», mi dice la rettrice Paola Inverardi, «rispetto a un’Italia che decresce questo è un territorio in sviluppo». Allora perché non trasformare gli studenti in costruttori, sostituendo i vecchi tirocini con attività extra-scolastiche che abbiano un rientro economico? Ti garantisco un corso di studi paragonabile in qualità agli altri atenei e in più ti offro un lavoro legato alla ricostruzione, con grandi ditte internazionali: inventa tu, culturalmente, la città che vuoi. Università, conservatorio musicale, accademia di belle arti, i fisici del Gran Sasso, coordinati per un “incubatore culturale”. Mah. Gli studenti che sostano nei corridoi non mi paiono immuni dall’inerzia, e il personale amministrativo sarà spiazzato da questo pensare in grande. Negli anni scorsi la frequenza è stata viziata dall’abolizione delle tasse universitarie; nel 2010 si sono iscritti a Lettere in 145 ma solo 45 hanno terminato il triennio; quell’anno, giustamente, gli studenti costretti a vivere altrove non pagavano i trasporti e ad alcuni operai (anch’essi deportati altrove) è convenuto iscriversi all’università per non pagare l’autobus. Molti adulti, visto che non si pagava niente, hanno tentato una prima o una seconda laurea a cui in altre circostanze non avrebbero pensato. Ma c’è anche qualche novità significativa: si cominciano a iscrivere ragazzi coi nomi veneti e friulani — figli di piccoli imprenditori, di muratori, elettricisti, idraulici, che qui si sono trasferiti perché sanno che, per quindici o vent’anni, ci sarà lavoro. Certe costruzioni nuove non sono più per gli aquilani. «Risorgerà diversa da come la immaginavamo, ma risorgerà».
La Repubblica 06.04.14