Un incontro interlocutorio. Che ha confermato l’apertura del governo su piccole modifiche – calo da 8 a 6 del numero di rinnovi nel contratto a tempo determinato e il ritorno ad una limitata formazione pubblica obbligatoria per il praticantato – e la chiusura totale sullo stravolgimento degli altri punti del decreto. «Non vuol dire però prendere o lasciare – ha detto Poletti – che non possiamo presentare proposte». Così molto è lasciato al gioco degli emendamenti e delle possibili alleanze trasversali. Sul decreto Lavoro ieri sera si è tenuto l’atteso faccia a faccia fra il ministro Giuliano Poletti e i parlamentari del Pd.
La disponibilità all’ascolto da parte di Poletti non si è comunque tramutata in una definizione compiuta e precisa delle possibili modifiche al testo, mentre da parte del partito le varie posizioni – molto critica da parte della minoranza (che però è largamente maggioritaria in commissione Lavoro, 17 componenti su 21 del Pd) e positiva da parte della maggioranza renziana – si tradurranno negli emendamenti che verranno presentati. Il cammino però è ancora molto lungo. Ieri il presidente della commissione Cesare Damiano ha chiesto alla presidenza della Camera l’allungamento dei tempi per le audizioni delle parti sociali. Se la richiesta verrà accettata, la scadenza per la presentazione degli emendamenti sarà l’11 aprile. Nel merito la linea ribadita anche ieri dallo stesso Damiano è quella maggioritaria nella commissione: «Noi non accettiamo la logica del “prendere o lasciare” perché un decreto non è un dogma e, al tempo stesso, non ci proponiamo di stravolgere il testo».
Da parte dei Giovani turchi ieri è invece arrivata una sfida al ministro: «Gli chiederemo riaprire lo scheletro del decreto con il contratto unico progressivo. Altrimenti il contratto a termine rischia di diventare un elemento di debolezza rispetto alle norme che prevedrà il jobs act». Una proposta che però vede contrario lo stesso Damiano e lo stesso ministro Poletti. Quando fu presentato il decreto, Poletti spiegò che la scelta di fare un decreto solo su contratto a termine e apprendistato era stata fatta per dare «una scossa immediata all’occupazione », mentre il contratto a tutele crescenti sarebbe arrivato nel disegno di legge delega – che dovrebbe essere depositato al Senato in questi giorni – assieme ad una riduzione della giungla contrattuale -45 tipologie – attuale. I Giovani turchi comunque escludono di rompere l’unità del Pd in commissione votando emendamenti con M5s e Sel, assai critici con il provvedimento.
Se a sinistra ci sono critiche, il decreto continua ad essere difeso a spada tratta sia da Ncd che da Forza Italia. Ieri il governo si è fatto sentire anche per bocca del ministro dei Trasporti, Maurizio Lupi (Ndc): «Il decreto non si tocca, non si fa alcun passo indietro: abbiamo fatto un patto di governo e lo abbiamo fatto seriamente. Il presidente Renzi è stato su questo non solo coerente ma sul fattore tempo sta giocando la sua partita vera».
«I PREPENSIONAMENTI COSTANO»
Un’altra delle novità più grandi di queste prime settimane di governo – l’idea del ministro Madia di usare i prepensionamenti per riaprire il turn over nel settore pubblico – ieri ha registrato una frenata. La Ragioneria generale dello Stato si è fatta sentire per rimarcare come il piano avrebbe costi elevati. «Se prevedo un ricambio, ho da pagare una pensione in più e uno stipendio e poi ci sono gli effetti sull’anticipo dell’età pensionabile e quello della buona uscita, c’è un impatto». Così si espresso il capo dell’Ispettorato generale per la spesa sociale della Ragioneria generale dello Stato, Francesco Massicci parlando alla commissione di controllo sull’attività degli enti previdenziali. Secondo Massicci, infatti, l’operazione sarebbe a costo zero «se si manda via una figura diventata obsoleta che non si deve rimpiazzare, ma la condizione viene meno se la figura deve essere sostituita».
Ma Madia non pare intenzionata a fare marcia indietro. Illustrando le linee programmatiche presso le commissioni riunite Affari costituzionali e Lavoro della Camera, ha spiegato: la cosiddetta staffetta generazionale è una necessità perché «se non si fa, non ci può essere il rinnovamento della pubblica amministrazione, ma la sua agonia, con il rischio di alimentare un scontro generazionale.
L’Unità 03.04.14