attualità, politica italiana

"Le riforme per superare l’emergenza", di Stefano Lepri

Un così alto livello di disoccupazione in Italia può essere fatto risalire a tre diversi errori del recente passato. Il primo è il ritardo con cui l’Italia ha dato inizio al risanamento del bilancio, nella seconda metà del 2011. Il secondo è la cattiva gestione della crisi dell’euro, tra istituzioni comuni deboli, sfiducia reciproca tra nazioni, ritardi.

Il terzo errore lo commisero governi e istituzioni del mondo quando, a metà del 2010, si illusero che aggiustamenti di bilancio rapidi e contemporanei in molti Paesi avrebbero riportato la fiducia tra gli operatori economici, senza causare una seconda recessione. Quale sia il peso relativo di ciascuno dei fattori è materia di dibattito, e lo resterà a lungo.

È difficile evitare che i disoccupati continuino ad aumentare anche nella prima fase della ripresa, specie se è fievole come in Italia. Quello che si può fare subito è riformare il mercato del lavoro in modo che il peso non ricada tutto sui giovani, rendendoli disperati; è procedere con le riforme, anche politiche, per alzare il morale del Paese.

Ricette miracolose non ne esistono. Attendendo che la Bce si muova, la novità è che nella campagna per il voto europeo l’austerità appare senza genitori. Il candidato del centro-destra, Jean-Claude Juncker, rifiuta di lasciare al rivale socialista Martin Schulz lo slogan che innanzitutto occorre lavoro; se gli si obietta che vota per lui Angela Merkel, ribatte vantando il sostegno dei greci di Nea Dimokratia.

Le proposte politiche restano diverse, è ovvio. Un vasto numero di disoccupati in presenza – come siamo – di capitali abbondanti e inoperosi fa propendere verso soluzioni di tipo keynesiano, in cui lo Stato mobilita risorse per creare lavoro; soluzioni care alla sinistra quasi ovunque, anche alla destra nei Paesi latini e in Giappone.

Ma quando i capitali appartengono perlopiù ad alcuni Paesi (come la Germania), i disoccupati ad altri, non è facile organizzare l’incontro, specie se Stati indebitati e sistemi-Paese inefficienti non ispirano fiducia. In Europa, proprio il molto che resta di sovranità nazionale fa ostacolo; all’opposto dell’illusione di creare lavoro uscendo dall’euro.

Anche per il contrasto di interessi nazionali, nel Nord del continente la dottrina dell’austerità resta in voga. Lo prova la difficoltà dei socialdemocratici tedeschi, da cui Schulz proviene, a proporre agli elettori del loro Paese le politiche di investimento e di solidarietà che gli elettori di sinistra di altri Paesi sperano dal candidato Schulz.

A favore dell’austerità viene giocato ora l’argomento che i due Stati più inguaiati, Portogallo e Grecia, cominciano a uscire dal tunnel. Eppure, nel dirsi allo stesso tempo preoccupato di un lungo periodo di bassa inflazione, il commissario europeo Olli Rehn implicitamente riconosce che i piani di Bruxelles erano difettosi.

Ci sono poi differenze. In entrambi i Paesi, dato un forte sbilancio nei conti con l’estero come nei bilanci pubblici, un risanamento era inevitabile. La durezza è stata simile (2,2% di Pil all’anno per 5 anni in Portogallo, 2,4% in Grecia), il successo diverso: Lisbona può ora sottrarsi alla sorveglianza della «troika»; Atene, dove in mancanza di riforme le sofferenze sono ricadute sui più deboli, ha faticato ad ottenere la nuova rata di aiuti.

La politica ha fatto la differenza: misure più efficaci in Portogallo, dove gli elettori continuano a dividersi tra una coalizione di centro-destra e un partito socialista entrambi europeisti; mentre in Grecia crescono le estreme o forze del tutto nuove. Quando si è alle strette, va meglio ai governi che sanno riformare. È un esempio che può valere sia a Roma sia a Parigi.

La Stampa 02.04.14