Con un’inflazione vicina a zero, in Italia è ora allo 0,4%, e una crescita potenziale a livelli simili, adempiere agli impegni di riduzione del debito pubblico italiano non è possibile. Nei primi due anni, per esempio, sarebbero necessari surplus primari pari a un totale del 5% del Pil in più del previsto. L’esperienza del 2011-2012 in Grecia e in Italia ha dimostrato che correzioni di bilancio molto rapide e di dimensioni superiori al 4% hanno effetti controproducenti. A seguito dell’aumento delle tasse e dei tagli alle spese, il Pil scende e il debito aumenta ulteriormente e tutto ricomincia da capo in condizioni peggiori. Quando questo avviene, gli inasprimenti fiscali vengono percepiti come permanenti e non più come transitori, così imprese e famiglie riducono investimenti e consumi, aggravando ancora la recessione.
Nemmeno le riforme strutturali funzionano bene in tali circostanze, perché il quadro macroeconomico ha un effetto non trascurabile sulla loro riuscita. Si può per esempio facilitare in varie forme l’impiego di nuovi lavoratori, ma non è detto che ci sia qualcuno che voglia assumere quando l’economia è ferma. Inoltre l’assenza di inflazione rende difficile spostare le attività da settori in declino, o dalle rendite, ai settori che esportano. Se i prezzi sono vicini allo zero, i settori che devono ridimensionarsi devono avere prezzi negativi, ma questo crea aspettative di deflazione che frenano la domanda anche di quei settori che invece potrebbero crescere.
Sembra paradossale parlare di scenari così preoccupanti in giorni in cui affluiscono grandi quantità di capitali verso l’area euro, arrivando finalmente anche in Italia.
I titoli pubblici vengono collocati facilmente e lo spread scende, ma c’è qualcosa di spietato nell’algebra, come nella forza di gravità, bisogna vivere su un altro pianeta per far finta che non esista. Infatti l’afflusso di capitali rafforza l’euro, i beni importati costano meno e ciò accentua la disinflazione.
È evidente che la Bce deve intervenire. Le aspettative di inflazione stanno sfuggendo di mano e la domanda di attività in euro che viene dall’estero non può che essere soddisfatta attraverso la creazione di nuova liquidità, oppure finirà per rafforzare ancora l’euro. All’interno della Bce tuttavia esiste una resistenza ad agire che deriva dalla natura delle misure non convenzionali che dovrebbero essere intraprese. Poiché la disinflazione e la bassa crescita sono anche conseguenza della carenza di credito in alcuni Paesi, gli interventi sulla liquidità non sarebbero “impersonali”, non riguarderebbero cioè tutte le banche e tutti i Paesi, ma solo alcuni. Anzi le misure più efficaci – l’acquisto di titoli dei Paesi in cui il credito si è fermato – beneficerebbero proprio quei Paesi che dal punto di vista politico-economico hanno più compiti da fare. Data l’esperienza italiana dell’autunno 2011, c’è chi teme che se la Bce risolvesse i problemi di credito italiani, dando alla domanda un po’ di vento nelle vele, il governo rallenterebbe le riforme. In tal caso, i problemi sarebbero solo rinviati nel tempo.
Jens Weidmann, il capo della Bundesbank, ha offerto il 21 febbraio un’interpretazione riduzionista della situazione, definendo la politica monetaria attuale già accomodante. Ha osservato che tutt’al più è possibile non neutralizzare la liquidità immessa ogni volta che la Bce acquista titoli. Ha infine aperto uno spiraglio all’allentamento quantitativo che alla Bundesbank appare un programma meno mirato a singoli Paesi e in quanto tale più accettabile alla luce delle sentenze della Corte costituzionale tedesca. Ma l’allentamento quantitativo potrebbe essere troppo generico per risolvere gli specifici intoppi nel mercato del credito che frenano l’area euro. L’alternativa sarebbe un Omt, cioè un programma di acquisto di titoli di un singolo Paese, condizionato a un programma di riforme concordato dal fondo salva stati (Esm). Quest’ultimo è un programma che l’Italia vuole evitare per non doversi sottoporre a tutela esterna.
Così il cerchio si chiude tornando alle riforme italiane. Se il governo le realizza, sarà più facile che la Bce approvi aiuti mirati ai problemi italiani. Ma naturalmente c’è un’ulteriore complicazione. Le riforme di cui si discute all’Eurogruppo e all’Ecofin sono diverse da quelle del passato. Se un tempo si trattava di misurare le riforme in termini quantitativi (per esempio i risparmi sulle pensioni future), ora le riforme sono spesso qualitative: la giustizia, il sistema elettorale, l’efficienza della pubblica amministrazione. Sono indispensabili alla crescita, ma non di facile misurazione. Non sarà agevole farle accettare ai partner come basi oggettive del risanamento. Per questa ragione è almeno necessario che sia verificabile la scadenza delle loro realizzazioni. In tal senso era buona l’idea del presidente del consiglio di scadenzare mese per mese il programma di riforme. A febbraio le riforme costituzionali, a marzo quella del lavoro, ad aprile la Pa. E a maggio il fisco. Ma anche i calendari, come l’algebra e la forza di gravità, sono spietati.
Il Sole 24 ore 01.04.14