La Patria che si sostituisce alla République, il popolo ai cittadini, la nazione all’Europa.
Questa è la lezione generale che viene dalla Francia, dopo l’avanzata del Fronte di Marine Le Pen. Ma c’è qualcosa di più, che può riguardarci da vicino, e che conviene analizzare per tempo.
Il primo dato è la spoliazione repubblicana operata dalla crisi, che mette in causa lavoro, risparmio, aspettativa di futuro, ruolo sociale, sicurezza. La reazione è di spaesamento e di abbandono, con la percezione di un impoverimento politico per l’incapacità di governare da soli fenomeni complessi come la globalizzazione, che determinano una sensazione di perdita generale di controllo. A questo sentimento di dispersione identitaria si accompagna la crisi dei canali di intermediazione e di rappresentanza, dalle categorie ai sindacati ai partiti.
SMARRITO nella solitudine repubblicana, il cittadino ritorna individuo: e deve fronteggiare privatamente le nuove paure pubbliche che la crisi ingigantisce e che nessuna cultura comunitaria ha avuto il tempo e il modo di elaborare, riducendole a politica e smitizzandole.
Bisogna avere il coraggio di ammettere che la destra è più attrezzata a cavalcare questa onda d’urto che frantuma identità e appartenenze. Anzi il più attrezzato è un populismo-nazionalista che unisce modernità e tradizione nella coltivazione delle paure, rinchiudendole dentro frontiere immaginarie innalzate contro la nuova sfida transnazionale e globale. Per essere più esatti siamo davanti alla crescita di forze che si presentano come “né di destra né di sinistra” (la definizione preferita che Marine Le Pen dà oggi del Fronte) o addirittura come il superamento della dicotomia del Novecento (il Movimento 5 Stelle). Come tali queste forze uniscono un culto strumentale della tradizione ad una critica radicale della globalizzazione che porta con sé una denuncia degli esiti estremi del capitalismo finanziario e del liberismo selvaggio, che la sinistra non sa più fare.
Questo profilo ideologico apparentemente costruito sul superamento delle famiglie culturali del secolo scorso (e delle loro proiezioni terrene, politiche) porta davanti a noi soggetti che si presentano come nati dal nulla, o comunque ri-generati dall’esplosione del vecchio sistema, dunque “vergini”, quindi innocenti e per definizione incolpevoli, proiettati soltanto nel mondo che verrà e anzi unici custodi del focolare dell’appartenenza identitaria, i soli capaci di custodirla nel passaggio dal vecchio al nuovo. Movimenti che hanno per conseguenza un unico vero comandamento generale: la sfida al sistema nel suo insieme, quindi una lettura della realtà politica che faccia sempre e comunque di ogni erba un fascio, che non distingua tra le storie e le culture politiche e che consenta ai populismi di presentarsi non come uno sfidante tra vari competitori, ma come “la sfida” vera e propria all’intero sistema ridotto a un insieme da distruggere, perché da questa prospettiva nichilista di sostituzione totale non c’è niente da salvare.
Covano nei nuovi populismi elementi culturali da tea party, com’è evidente, o da moderna rivoluzione conservatrice europea, che usa gergalità di sinistra e modalità radicali mosse da un’autentica anima di destra nel senso che Salvemini dava al “disprezzo per la democrazia” o che Croce attribuiva alla “feroce gioia” contro le istituzioni. È la rivincita contro l’occidentalizzazione del mondo, che va in crisi proprio da noi, in Europa. L’irrisione dei grandi racconti della modernità, considerati superati come i concetti e le definizioni che hanno prodotto. Anzi, è la fine del moderno in politica, con la crisi delle categorie classiche che l’hanno interpretata per oltre un secolo. Viene alla luce una novità: una speciale modalità del populismo di essere “popolare”, cioè di adulare il popolo rappresentandolo nelle sue paure e nei suoi fantasmi, ma anche nella sua proletarizzazione culturale, con la perdita di riferimenti e di meccanismi di lettura e di interpretazione del contemporaneo, senza più categorie del reale.
Il populismo chiede una relazione empatica, dunque anche d’istinto. Più che elaborare le paure, le stereotipizza, facendole diventare soggetti politici minacciosi, dunque bersagli. In cambio promette protezioni primitive organizzate ognuna sempre attorno al concetto delle frontiere, immaginarie o reali, storiche o culturali: perché il nemico è tutto ciò che è transnazionale, che si muove da un mondo all’altro e li attraversa tutti d’abitudine, l’immigrazione naturalmente, ma anche le élites, il cosmopolitismo, l’euro, l’Europa e la globalizzazione. La risposta è la chiusura in una sicurezza immaginaria, separata e isolata, antica e autarchica con le monete di una volta, le barriere e i confini, gli Stati teorizzati come pure comunità di discendenza, il welfare riservato agli indigeni, i diritti degli altri che pagano dogana.
È la risposta più radicale di fronte all’impatto radicale della crisi. La Francia segnala al continente (e all’Italia in particolare) questa sfida e anche un altro pericolo, nuovissimo e di grande portata: l’impotenza del riformismo. Il rischio cioè che la sinistra di governo, alla fine del suo lungo travaglio, non sia in grado di trovare in se stessa gli elementi per una lettura altrettanto radicale della fase e per una proposta di contromisure forti, e finalmente diverse dall’antipolitica crescente. Come se le vecchie parole della tradizione riformista fossero inservibili, mentre invece il concetto di uguaglianza potrebbe essere la leva politica da cui ripartire, nel momento in cui le disuguaglianze sono la cifra dell’epoca. Come se, soprattutto, riformismo equivalesse a moderatismo, incertezza identitaria, accettazione di un’egemonia culturale altrui, mancanza di autonomia politica, dispersione nel senso comune dominante.
E invece governare oggi significa cambiare, radicalmente. Il Paese è esausto nella sua forma di sistema, esasperato nella sua forma d’opinione. Questo esaurimento non è solo un problema di efficienza perduta, sta diventando un problema di democrazia rinnegata. Il cambiamento — cioè la riforma del sistema — è lo strumento più radicale che la sinistra ha a disposizione per fronteggiare la vera sfida politica che ha davanti a sé con il nuovo populismo antipolitico. È l’unico modo per ricostruire un circuito di fiducia tra le istituzioni e il Paese, tra i cittadini e la politica. Perché provare a cambiare davvero un Paese — soprattutto se pare irriformabile come il nostro — è più utile che prenderlo a calci, scommettendo ogni giorno sul peggio.
La Repubblica 01.04.14