È iniziata una nuova grande guerra energetica, diversa dalle precedenti, ma, pur sempre segnata da strategie più o meno mascherate di attacco e difesa. Come per il passato finiranno per determinare i grandi equilibri della politica interna. Ma sarà proprio così o, secondo la tradizione, le battaglie di oggi avranno contenuti assai diversi da quelli di ieri? È probabile che il copione odierno sia destinato ad essere molto diverso da quelli degli scontri passati.
Negli anni 70-90 lo scontro vedeva da un lato i socialisti e dall’altro i dc; le poste in gioco erano costituite dai permessi di costruzione di nuove grandi centrali energetiche, del controllo sulle grandi vie di comunicazione petrolifera, dalla creazione di nuovi multi centri petrolchimici, ecc. Questo fiorire di nuova industrializzazione s’incrociava coi poteri attribuiti alla Programmazione e alle Regioni, col fiorire di nuove aziende tessili, rifornite da materie prime di ultima generazione petrolifera, ecc. La politica e i nuovi capitani d’industria s’incrociavano in duelli all’ultimo sangue: Rovelli contro Ursini, Cefis contro Ruffolo e soprattutto socialisti contro tutti. Alla fine i compromessi si concludevano attorno ai tavoli del governo nelle varie istanze, si inauguravano nuove sedi, si tagliavano nastri, si ricollocavano le alleanze politiche e sindacali.
Ora tutto è diverso. Scomparsi i partiti, le influenze si sono articolate attorno a singoli personaggi e alle loro clientele più o meno ubbidienti. I contenuti della politica energetica non giocano più alcun ruolo. Contano i posti, chi li detiene e chi li distribuisce. Per questo la guerra odierna si presenta sotto vesti assai diverse.
Tra aprile e giugno dovranno essere rinnovati i Cda di 14 società direttamente controllate dallo Stato, cui si aggiungono altre 35 controllate indirettamente. Se si considerano gli amministratori delegati, i presidenti, i consiglieri dei cda e i membri dei collegi sindacali, si tratta di un rinnovo di 600 incarichi, uno dei più grandi giri di nomine degli ultimi anni. Questo riguarda un dossier molto importante per il ministero dell’Economia, se si considera che le 49 società, i cui vertici sono in scadenza, hanno un fatturato pari a 258 miliardi di euro, pari al 16% del pil.
L’attuale processo per rinnovare i cda (deciso dal governo Letta) prevede che due società di “cacciatori di teste”, selezionino delle liste di candidati che vengono successivamente poste all’attenzione di un Comitato di garanzia che ha il compito di verificare che questi rispettino i requisiti di onorabilità e professionalità.
Tecnicamente, la procedura si svolge nel seguente modo: il Mef presenta, per ogni società, una lista di consiglieri, indicando al tempo stesso chi di questi è il candidato presidente. Successivamente si riunisce l’assemblea che procede ad eleggere il cda. Sarà quindi il cda, nel corso della sua prima riunione utile, a nominare l’amministratore delegato, scegliendolo tra i suoi componenti.
Nonostante la recente normativa fissi dei criteri di trasparenza riguardo le procedure di selezione, la decisione finale si presume venga fatta in grandissima autonomia dal presidente del Consiglio sulla base di una scelta esclusivamente politica. Fino all’ultimo giorno prima della scadenza dei termini per la presentazione delle liste, nulla si sa riguardo le future scelte. L’azienda rimane nell’incertezza, spesso con conseguenze negative per il titolo e per le strategie di lungo termine. Le incertezze e le logiche da “totoministri” mal si sposano a quelle della Borsa.
La nomina viene fatta indipendentemente dalle logiche di mercato “anglosassoni”, trasparenti e meritocratiche, che presupporrebbero, invece, un processo di consultazione con i grandi azionisti nazionali ed esteri: a cominciare dai fondi internazionali che investono miliardi in queste aziende e che spesso non comprendono in base a quali criteri vengano selezionati i vertici societari. Non sarebbe questa una procedura più consona alla modernizzazione della struttura societaria italiana?
La Repubblica 31.03.14