Parigi resterà alla sinistra ed è già qualcosa. Il secondo round delle amministrative francesi conferma il disastro dei socialisti, l’avanzata della destra «normale» e lo sfondamento, dove si è presentato, del Front National di Marine Le Pen. Pessimo presagio per le elezioni europee ormai quasi imminenti. Un centinaio di comuni con più di 10 mila abitanti passano dalla sinistra alla destra e nell’elenco i socialisti debbono amaramente annotare città importanti come Strasburgo, Tolosa, Metz, Reims, Amiens, Roubaix e tantissimi centri più piccoli considerati, fino al terremoto di domenica scorsa, roccaforti tranquille. Tre città importanti, Bezières, Frejus e Hayange vanno al Front National, che fallisce, comunque, il tentativo di conquistare Avignone. Nella capitale però la socialista Anne Hidalgo riesce a spuntarla nonostante il salasso dei voti sottratti al PS soprattutto da un’astensione con un chiaro marchio politico e potrebbe continuare l’opera di rinnovamento e la buona amministrazione (riconosciuta dai più) del sindaco Bertrand Delanöe. Si può anche leggere il risultato in negativo: più che di una vittoria della candidata di Hollande si sarebbe trattato di una sconfitta della sua rivale, quella Nathalie Kosciusko-Morizet (NKM per chi non ama gli scioglilingua) che era stata scelta dalla destra nonostante l’handicap di essere stata la portavoce di Nicolas Sarkozy. A testimonianza del fatto che se François Hollande non attraversa un periodo facile, la memoria del suo predecessore non brilla certo nel confronto neppure a posteriori. I risultati, s’è detto, confermano sostanzialmente quelli del primo turno: l’«ondata blu» dell’Upm e il boom di FN, e pochi, d’altronde, si aspettavano sconvolgimenti ulteriori o rimonte clamorose. Il dato più interessante, però, è l’aumento delle astensioni, che a giudicare dai dati disponibili ieri sera avrebbero superato il 38%, con un incremento ben più sensibile di quello medio che si registra in ogni secondo turno rispetto al primo e che, secondo la maggior parte degli osservatori, avrebbe punito soprattutto i socialisti. È chiaro che c’è una grossa fetta di elettori francesi che si è disamorata della sinistra al governo o che ha voluto comunque darle una lezione segnalando la scontentezza per la disoccupazione che ha continuato a crescere, per i tagli nel bilancio che hanno colpito il settore pubblico, per la generale stagnazione (anche psicologica) in cui pare essersi incagliata l’economia dell’esagono. Chi prende atto di questo stato d’animo può anche consolarsi con l’idea che esso possa essere contrastato se la compagine di Hollande si mostrerà capace di riprendere l’iniziativa. Appaiono come un tentativo di risposta in questo senso le voci, che in queste ore si accavallano fino a diventare previsione sicura, sul cambio dell’uomo che è alla guida del governo, con la sostituzione di Jean-Marc Ayrault con il dinamico (e contestato) ministro dell’Interno Manuel Valls, con l’eterno Laurent Fabius o, addirittura, con lo stesso Delanöe, forse l’unico che esce da questa drammatica tornata elettorale senza essersi rotte le ossa. Non tutte, almeno.
Ma è evidente che il problema più che di uomini è di programmi. È sul piano delle scelte di governo che Hollande non si è mostrato all’altezza delle promesse con cui aveva vinto la campagna elettorale. Alcune le ha mantenute, ed è giusto dargliene atto, con una riforma fiscale che, sia pure con qualche esitazione, ha colpito le diseguaglianze più clamorose, con le misure in materia di pensioni, con il coraggio mostrato sui temi civili come il matrimonio tra omosessuali. Ma su quelle che davvero avrebbero dovuto incidere sulla sostanza delle politiche economiche della Francia e dell’Unione, quelle mirate al riequilibrio nel senso degli investimenti e della crescita dalle politiche restrittive imposte da Berlino e da Bruxelles incardinate sul Fiscal compact del quale da candidato Hollande aveva (incautamente?) annunciato la «ridiscussione», la svolta promessa non c’è stata. Magari non (o non solo) per colpa sua, ma troppo spesso l’inquilino dell’Eliseo ha dovuto piegare la testa.
Se le cose stanno così sarà molto difficile invertire la tendenza nelle nove settimane scarse che ci separano dall’elezione del nuovo parlamento europeo. L’estrema destra francese costituirà una grossa parte di quella rumorosa valanga di contestatori dell’Europa che si siederà sui banchi dell’unica istituzione europea scelta dai cittadini. I segnali che arrivano da Bruxelles dicono che non sarà facilissimo per Marine Le Pen e il suo alter-ego olandese Geert Wilders mettere in riga tutte le varie demagogie anti-euro e anti-Unione che si agitano in quasi tutti i paesi. Ma il radicamento del populismo nel suo cuore politico sarà il grande problema politico che l’Europa dovrà affrontare dopo il 25 maggio.
L’Unità 31.03.14