Estendere anche ai dirigenti il tetto allo stipendio che da martedì prossimo riporterà tutte le buste paga dei manager pubblici (quelli delle società partecipate dal ministero dell’Economia) al livello del primo presidente della Corte di Cassazione. E fare in modo che quel tetto, pari a 311 mila euro, venga calcolato sulla persona e non sull’incarico. E ancora: assicurarsi che le società quotate in Borsa e possedute dal Tesoro — come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna — facciano la loro parte quando a breve rinnoveranno i vertici. E dunque non sfuggano a quel taglio del 25% ai compensi di presidenti e amministratori delegati, scritto nella legge. Ma tutt’altro che scontato, visto che l’assemblea degli azionisti può bocciarlo. Tre snodi fondamentali all’esame del governo in queste ore. E che potrebbero finire nella riforma della Pubblica amministrazione, annunciata per aprile. La direzione è opposta a quella auspicata da Ennio Doris (Medilanum), che ospite di Maria Latella, SkyTg24, si augura sforbiciate solo temporanee ai compensi, per non perdere le menti migliori.
Da una parte dunque, l’esecutivo Renzi è all’opera per evitare un altro paradosso Rai, con il direttore generale Gubitosi che continuerà a percepire 650 mila euro in quanto dirigente, mentre il presidente e anche amministratore delegato Tarantola scenderà tra un paio di giorni a 311 mila. Dall’altra, scongiurare una volta per tutte il ripetersi del caso Mastrapasqua, l’ex presidente Inps assiduo collezionista di poltrone. Chi accetta più di un incarico pubblico, potrà guadagnare in totale e al massimo 311 mila euro. Qualunque sia la combinazione: enti, partecipate, quotate e non. In realtà, la norma c’è. Ma come se non ci fosse. E il governo intende rafforzarla. Il panorama legislativo difatti è assai frastagliato, per quanto riguarda stipendi, tetti, tagli. E le vie per sfuggire ai sacrifici ci sono. Intanto, la soglia pari a 311 mila euro è in vigore da due anni (Salva- Italia di Monti). All’inizio valeva solo per le amministrazioni centrali, poi è stata estesa nel 2012 a tutti i dirigenti e dipendenti di società (non quotate) partecipate direttamente o indirettamente dallo Stato e dagli enti locali, dunque Comuni, Province e Regioni. A partire però dal rinnovo dei Consigli di amministrazione.
Dunque la pletora di municipalizzate è ampiamente dentro questo perimetro. Per dire, vi sono anche l’Atac e l’Atm, le due società di trasporto dei Comuni di Roma e Milano.
La legge di Stabilità del governo Letta ha poi ricompreso nel tetto anche magistrati, professori universitari, Consob, Authority. In pratica, tutti. Mentre per le società quotate e per quelle che emettono bond, cioè obbligazioni, si è fatta un’eccezione. Il tetto non esiste, ma vale il taglio del 25% degli stipendi, a partire dal rinnovo delle cariche. E qui il nodo. Le quotate — come Eni, Enel, Finmeccanica, Terna — devono approvare il taglio in assemblea. Mentre le altre — come Poste, Cdp, Ferrovie — sono obbligate. Estendere quest’obbligo anche alle quotate — riflessione che il governo sta facendo — aggirando così l’eventuale veto degli azionisti, sembra però complicato. Visto che si tratta di società che rispondono al mercato.
Sia come sia, per ora nessuno sa chi il tetto l’ha rispettato e chi no. La Consob avrebbe aperto già due inchieste per danno erariale contro una ventina di manager pubblici disubbidienti. A complicare la faccenda, le tre fasce introdotte dal ministero dell’Economia. Che valgono però solo per le partecipate del Tesoro e che scattano dal primo aprile (ma i dirigenti nel mirino sono quasi tutti in scadenza). Anche qui un paradosso: se l’ad dell’Atac può guadagnare fino a 311 mila euro, quello dell’Istituto Luce 155 mila (terza fascia) e quello dell’Enav, l’ente nazionale che controlla il traffico aereo (seconda fascia), 250 mila.
La Repubblica 30.03.14