La discussione innescata dal decreto Poletti sui contratti a termine ci sta facendo ricadere in una trappola che il governo Renzi sembrava intenzionato a evitare. C’è infatti il rischio di disperdere energie e capitale politico in una discussione sulle regole tanto lacerante quanto inutile, visto che la ripresa dell’occupazione non passerà certo da qualche intervento d’ingegneria contrattualistica
Prima di azzuffarci sfoderando le solite bandierine ideologiche, sarebbe utile fare un passo indietro per chiederci quali obiettivi dovrebbero perseguire le nostre politiche del lavoro. Due su tutti: 1) ridurre il dualismo tra garantiti e non garantiti, costruendo un nuovo sistema di tutele per i secondi; 2) favorire una mobilità socialmente sostenibile dei lavoratori dalle imprese meno produttive a quelle più produttive. Il decreto e il ridisegno complessivo annunciato dal governo vanno incontro a questi obiettivi? Al momento, è difficile rispondere, perché tutto dipende dagli interventi che saranno adottati nei prossimi mesi.
Ci sono pochi dubbi che, lasciato da solo, l’attua- le decreto finirebbe per aumentare il dualismo del nostro mercato. Senza fare nessun progresso sul fronte di una mobilità del lavoro i cui costi siano ripartiti in maniera equa tra lavoratori (e generazioni). Tutto dipende dalla qualità degli interventi che arriveranno con il successivo disegno di legge.
Il problema del decreto non è tanto aver allungato il periodo in cui si può ricorrere al tempo determinato senza causale. La causale è uno strumento “rozzo” di tutela, in quanto aumenta solo i costi burocratici e il rischio di cause di lavoro; costi che gravano sull’impresa senza avvantaggiare il lavoratore. Il vero problema è che si potrà assumere lo stesso lavoratore fino a otto volte nell’arco di tre anni, reiterando contratti di pochi mesi. Si finisce per istituzionalizzare un’incertezza sul proprio lavoro che è allo stesso tempo ravvicinata e prolungata.
Per carità: è chiaro che, a fronte di una ripresa a dir poco timida, le imprese riprenderanno ad assumere a tempo prima d’impegnarsi in contratti a tempo indeterminato. Per questo, quando la riforma Fornero rese più rigidi i contratti a termine, qualcuno fece notare che era pericoloso in un periodo di recessione. Ma quella scelta era il frutto di un compromesso trasparente. Adesso, si deci- de di tornare indietro per meri motivi congiunturali? Come si sposa il decreto Poletti con la riforma complessiva annunciata dal governo? Al momento, non è chiaro.
Una delle novità della riforma dovrebbe essere il famoso «contratto unico a tutele progressive». Il nuovo contratto dovrebbe prevedere un periodo di tre anni in cui l’impresa può licenziare il lavoratore (fatta salva la tutela antidiscriminazione) pagando semplicemente una buonuscita. Dopo tre anni, scatta la tutela reale della normativa attuale.
Molti nodi aspettano di essere chiariti, però. Quanti (e quali) contratti flessibili saranno rimossi o irrigiditi per far posto al contratto unico? Si tornerà di fatto indietro rispetto all’attuale decreto? Se si userà l’accetta, il rischio è di produrre effetti negativi sull’occupazione, colpendo anche quella flessibilità in entrata che risponde a reali esigenze produttive od organizzative. Se non si toglierà niente, però, il contratto unico sarà del tutto inutile.
Per far sì che il decreto Poletti non finisca per esasperare la precarietà del lavoro, si potrebbe far leva sugli incentivi economici, anziché sui soliti divieti (facilmente aggirabili), in modo da rende- re più conveniente il tempo indeterminato rispetto a un uso reiterato delle forme flessibili. Per esempio, si potrebbe introdurre una buonuscita compensatoria per qualsiasi forma di lavoro flessibile, esigibile dal lavoratore dopo un prestabilito periodo d’anzianità all’interno di un’azienda, solo nel caso in cui la stessa si rifiuti di stabilizzarlo.
Certo, introdurre una buonuscita (anche se non retroattiva) in un periodo di recessione potrebbe essere insidioso per l’aggravio dei costi delle imprese. Ma l’aggravio scatterebbe solo nel caso in cui un’impresa non sia disposta a stabilizzare lavoratori di cui mostra di continuare ad avere bisogno per un periodo prolungato. Niente cambierebbe per chi usa il lavoro atipico per reali esigenze di flessibilità organizzativa o produttiva.
Qualcuno obietterà che così si rischia di “mercificare” i diritti dei lavoratori. Perché non promuoviamo una bella consultazione diretta, allora, tra i lavoratori flessibili, le finte partite iva e i disoccupati, per chiedergli che cosa ne pensino? Chi vive già in un mercato fortemente dinamico sa che una dote monetaria per muoversi da un’occupazione a un’altra può essere un aiuto prezioso. E soprattutto, dopo anni di interminabili convegni sull’esigenza di creare nuove tutele per i nuovi lavori, sarebbe un primo passo concreto in quella direzione.
L’Unità 30.03.14