Di fronte al rilancio delle privatizzazioni annunciato dal ministro dell’Economia Padoan è bene chiedersi – come fa Bassanini, presidente della Cassa depositi e prestiti – se non è opportuno che lo Stato mantenga il controllo delle aziende strategiche (il che renderebbe difficile usare le dismissioni per abbattere il debito pubblico in modo significativo).
Ma è bene farsi domande più di fondo, anche tenendo conto che il ministro Padoan ha esplicitamente collegato l’intensificazione delle privatizzazioni a un auspicabile (per lui) ridimensionamento del «settore pubblico» e che nella stessa direzione andrebbe l’eventuale finanziamento dei benefici fiscali promessi a milioni di lavoratori con massicci tagli di spesa (come quelli prospettati con la spending review). La più importante tra queste domande di fondo – di fronte al dilagare di un ribellismo antieuropeo che è contro un’austerità deflazionistica e privatizzatrice – è la seguente: che significato ha il lancio in corso per l’Italia e per l’Europa di una nuova ondata di privatizzazioni, la terza dopo quella della fine degli anni 80-inizio 90 e quella della metà degli anni 90? Per di più senza alcuna accurata analisi dei risultati raggiunti nelle onda- te precedenti, le quali, in verità, vedono drammaticamente peggiorati tutti gli indicatori, per occupazione, valore aggiunto, produttività, indebitamento, investimenti (si pensi in Italia al mancato decollo della banda larga connesso alla privatizzazione di Telecom).
Il punto è che il neoliberismo, di cui la crisi globale ha manifestato il fallimento costituendone una sorta di «autocritica» in diretta, non è affatto in resa, in ritirata. L’austerità deflazionistica e restrittiva nella versione della Merkel è un pilastro del neoliberismo e le privatizzazioni e l’«arretramento» del perimetro pubblico ne so- no al tempo stesso il logico compimento e il movente più autentico. Qui c’è molto impulso ideologico: lo starving the beast di bushiana memoria, sostenente – attraverso l’«affamamento» della bestia governativa mediante il taglio delle tasse – la cancellazione dell’idea stessa di responsabilità collettiva, si affida pur sempre al trinomio «meno regole, meno tasse, meno Stato». E qui ci sono molto corposi interessi che si riorientano e si riorganizzano: la finanziarizzazione – insieme alla commodification (la mercificazione di tutto, perfino del genoma umano) e alla denormativizzazione (non solo deregolazione, ma più profonda sostituzione del valore della norma e della legge con il contratto privato e la generalizzazione della lex mercatoria) – ha guidato il trentennio neoliberista. La finanziarizzazione, in fondo, ha costituito la ricerca e la conquista di nuove occasioni di profittabilità – affidate alla droga delle «bolle» finanziarie e immobiliari e dunque all’esplosione dell’indebitamento privato (assai più che di quello pubblico) – da parte di un capitalismo che dal compromesso keynesiano e dai «trenta gloriosi» prevalsi alla fine della seconda guerra mondiale aveva visto ridimensionate le proprie aspettative di profitto. Questa conquista di nuove occasioni di profittabilità, nella misura in cui è riuscita – come testimoniano la spostamento di ben dieci punti di quote del valore aggiunto dal lavoro al capitale e l’esplosione delle diseguaglianze con il balzo del- la «opulenza» dell’1% dei più ricchi verificatisi nel trentennio neoliberista -, è anche, però, deflagrata nella crisi globale. Oggi il capitalismo è nuovamente alla caccia di inesplorate occasioni di profittabilità e le cerca nelle aree in cui fin qui è prevalsa la protezione della responsabilità collettiva e in quelle «demercatizzate» e «demercificate», sottratte al dominio del mercato e della mercificazione e quindi a prevalenza di servizi pubblici. Queste sono proprio le aree dei beni pubblici, della ricerca di base, dei beni sociali, dei beni comuni, del welfare state, e ciò spiega sia l’irruzione delle problematiche di cui esse sono portatrici nel dibattito democratico contempo- raneo – per l’Italia suonano amare le vicende, ahinoi già dimenticate, dei referendum sull’acqua e sull’energia -, sia il loro tono non solo politico ma accentuatamente etico-politico, venendo richiamati gli accorati appelli (contro la mercificazione della terra, della moneta, del lavoro) del Polanyi de La grande trasformazione.
È, dunque, molto serio e allarmante il nuovo impulso che spinge alle privatizzazioni, al ridimensionamento del settore pubblico, all’attacco al modello sociale europeo, in una ispirazione complessiva che ha molti elementi conver- genti. Avere consapevolezza di ciò non porta a escludere, ovviamente, che le liberalizzazioni e qualche privatizzazione mirata – soprattutto in termini di cessioni di patrimonio immobiliare ben strutturate – siano utili. Ma per quanto riguarda il patrimonio mobiliare – il che vuol dire Finmeccanica, Enel, Eni, ecc. – il discorso è completamente diverso. Il panorama dell’assetto produttivo e industriale italiano è oggi talmente deteriorato che Pierluigi Ciocca – curatore con Roberto Artoni di una straordinaria ricerca sulla storia dell’intervento pubblico italiano – discute apertamente della desiderabilità della ricostituzione dell’Iri. Il che non significa negare che ci sia necessità di una grande iniziativa di recupero di efficienza e qualità nell’azione pubblica. Anzi, proprio coloro che con più costernazione guardano ai drammatici effetti di impoverimento e di dequalificazione del settore e del lavoro pubblico – in termini di strutture, di progettualità, di motivazioni – provocati dal lungamente perseguito «affamamento» della complessa architettura statale, hanno in proposito il dovere della massima vigilanza e della massima incisività propositiva.
Ma bisogna avere consapevolezza della posta in gioco. E la posta in gioco è un nuovo episodio di quella che i democratici americani non esitano a definire la strong battle tra pubblico e privato, con buona pace di quanti – influenzati dall’ostilità all’intervento pubblico della Terza Via blairiana – si sono affrettati a dichiarare «logora» ed «esaurita» la dicotomia stato/mercato. In realtà, al superamento di tale dicotomia ci si deve ispirare operativamente, nel disegno di un’architettura istituzionale variegata che faccia spazio alla partnership pubblico/privato e al- la molte forme di quello che Fabrizio Barca chiama «sperimentalismo democratico». Ma questo è molto diverso dal ritenere che tale dicotomia sia stata già superata, nei fatti e spontaneamente, perché nei fatti non c’è nessun superamento e c’è, anzi, il dominio del mercato e delle grandi corporations private sul pubblico, il che è un altro modo per dire del dominio dell’economia sulla politica.
L’Unità 26.03.14