Etimologia greca: nómos (da némein, spartire) significa regola, limite, misura; sopra Zeus, legislatore celeste, vigono norme fondamentali, perché nel cosmo regna la Moira, un equilibrio impersonale. Molti italiani sono nomòfobi, sordi all’idea d’una razionalità normativa, e smaniano seminando disordine. Il fenomeno esplode un secolo fa, contro Giolitti, colpevole d’essere democratico, impoetico, non eroico. Appartengono allo stesso ceppo estetismo dannunziano, retorica imperialista (l’Italia proletaria, in pectore signora del Mediterraneo), freddo cinismo reazionario (officia Alfredo Rocco, consulente d’industrie covate dallo Stato), impresa futurista (Tommaso Marinetti, uomo da mercato e vaudeville).
Scoppiata quasi dal niente una guerra europea, l’impasto virulento innesca febbri interventiste. Le infiorano profeti in cattiva giornata, vedi Gaetano Salvemini. Quel laconico cuneese tentava d’impedirla: l’Italia non ha motivo d’entrare nel mattatoio fumigante, né pare serio colpire gli alleati d’un trentennio; a parte gli aspetti morali, rischia l’osso del collo; bene che vada, uscirebbe stravolta. Lo pensano anche Senato e Camera ma fascisti ante litteram gli saltano addosso: manca poco che l’ammazzino, istigati dal poeta; era pronta la scala con cui espugnare l’appartamento. Lo salva un reparto a cavallo. Sapeva quanto poco valgano i generali: l’inetto e feroce Luigi Cadorna, venerato dal
Corriere, dissangua due armate sull’Isonzo, finché una controffensiva tattica senza pretese scardina il fronte. Aveva lasciato la porta aperta lo junior Pietro Badoglio, stella nascente, e anziché risponderne (materia gravissima, da corte marziale), sale ai vertici, presunto mago d’arte militare. Fossimo soli, sarebbe partita chiusa. Cadorna infama le truppe e scarica l’affare sul governo ventilando ipotesi d’armistizio (abietta lettera avvocatesca).
La guerra italiana finisce dopo tre anni e cinque mesi. Avevamo l’Aquila bicipite in casa. Restano un’industria bellica non convertibile, debiti, inflazione, tanti pescicani. Esplodono tensioni sociali. Imperversa il movimento violento condotto dall’ex socialista anarcoide Benito Mussolini: fornisce squadre ai padroni, applaudito dalle destre perché restaura l’ordine; e Luigi Albertini aspetta che, compiuta l’opera, restituisca gentilmente lo Stato. Se lo tiene 20 anni, 8 mesi, 25 giorni. Che sia un lungo incubo, senza cause organiche, è favola narrata da Benedetto Croce. Le ha, grosse come case. Trascinato dagli scherani, il condottiero smaltisce l’omicidio Matteotti, avendo favorevoli monarchia, gerarchie militari, Chiesa, capitalisti, magistratura, burocrati, una piccola borghesia rancorosa. Al pubblico piace come riempie la scena: rotea gli occhi; parla e scrive scolpendo nel marmo; bombarda Corfù; sostiene la lira, guida l’aereo; trebbia, scia, balla, batte il passo romano; nel cuore della notte forgia i destini d’Italia (un lume alla finestra segnala l’insonne al tavolo); e dal balcone annuncia d’avere rifondato l’Impero.
Bei tempi: i rimpianti dicono che sbornia collettiva fosse; divise, sfilate, ugole radiofoniche bellicosamente maschie, film Luce convertivano i credenti in guerrieri invincibili. Gli esperti vedono le cose nella misura reale, ma l’interesse corporativo genera un animale umano poco raccomandabile: scaltro, sicofante, servile, ipocrita, codardo, borioso, torpido, cannibale, sornione; l’archetipo è Badoglio. Il Sim gli ha fornito un informatissimo rapporto sulla Panzerwaffe (luglio 1940); e dall’alto lui commenta: «lo studieremo a guerra finita» (McG. Knox, Mussolini Unleashed, bel titolo, debolmente tradotto in La guerra di Mussolini, Editori Riuniti, Roma, 1984, 39). La dottrina sta in due righe: le macchine valgono meno dell’uomo; e gl’italiani hanno qualità sovrane d’intelletto, fibra morale, eroismo nativo. In pratica tale dogma richiede caserme piene, affinché siano tanti gli ufficiali nei gradi alti: ridotte da 3 a 2 reggimenti, le 40 divisioni diventano 70. Ipertrofia oziosa.
Siccome mancano persone abili e risorse, l’addestramento rimane a livelli primitivi. Combattere è affare tedesco: quando abbiano vinto, interverremo; così sognano gli affascinati dal Duce. I rapporti polizieschi davano fredda l’opinione pubblica durante la drôle de guerre, ottobre 1939-aprile 1940, ma venerdì mattina 10 maggio scatta l’offensiva e una falce dalle Ardenne alla Manica insacca le armate francoinglesi: allora la vox populi invoca guerra finta; cosa diavolo aspetta l’Onnisciente? Spettatori entusiasti misurano il bottino con occhi più larghi dello stomaco: Nizza, Savoia, Corsica, basi atlantiche, Algeria, Tunisia, Sudan, Kenya, Egitto, Medio Oriente; Dio sa come potessero immaginare un Hitler così idiota, sedotto dall’Infallibile.
L’epopea finisce in piazza Loreto, festa macabra. La guerra partigiana era evento d’alto valore ma sfuma l’occasione politica. Nel profondo l’anima collettiva resta qual era. Avere in casa un Pci diretto da Mosca implicava l’egemonia democristiana. Sopravvengono tempi comodi a bassa tensione morale. Quarantasette anni dopo, l’Italia scopre d’essere corrotta. Ne passano ancora 22. Era appena visibile l’affarista d’origini oscure, ciarlone in stile da commesso viaggiatore: politicanti corrotti gli vendono l’etere; monopolista del trash televisivo, regola i cervelli, disinnescando pensiero, sentimenti, gusto, e fosse due dita più alto (statura intellettuale), saremmo suoi sudditi, perché gli avversari stavano rispettosi, cappello in mano, inclini alle sciagurate “larghe intese”. Fortunatamente governava male guastandosi il gioco ma gli restano sette milioni d’elettori, più quanti voteranno l’ala separatista, pseudoripulita, pronta alla genuflessione appena lui chiami. Versiamo in uno stato liquido, surreale, dove quasi tutto può avvenire, ed è questione capitale sapere fin dove gl’italiani siano ancora vulnerabili dall’ipnosi.
La Repubblica 25.03.14