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"La sinistra deve ritrovare l’anima", di Michele Prospero

Non è una generica politica ad essere graffiata dal populismo, che in molti paesi d’Europa si aggira come un avvoltoio. E al blasfemo lessico della rivolta contro le tecnocrazie, premiato con il successo annunciato delle truppe di Le Pen figlia alle amministrative francesi, non si può rispondere invocando la correttezza della politica normale.
Quella politica che con i suoi lumi deve tornare al governo del continente, come se non ci fosse una precisa scelta politica anche dietro l’egemonia dei signori dell’austerità, del rigore, della finanza. Nata urlando a squarciagola la miracolosa parola d’ordine della libera concorrenza dei mercati, come sigillo di una splendida età di progresso illimitato per individui ridotti a imprenditori di loro stessi, e scagliandosi contro le arcaiche clausole costituzionali novecentesche dell’eguaglianza e dell’inclusione sociale, l’integrazione europea non è stata affatto una esperienza senza politica, ma è stata piuttosto un laboratorio succube di una cattiva politica. La battaglia per arginare la deriva cognitiva del populismo, che crea inimicizie di comodo per non attaccare le fonti reali dei conflitti di classe, non è quindi tra un mercato rimasto senza politica (impossibile evenienza: anche il liberismo più sfrenato suppone una decisione, diceva già Gramsci) e il ritorno in gioco della politica dopo il letargo, come se ci fosse da colmare una pura assenza. La politica c’è stata, eccome. Solo che ha indossato gli abiti della politica di servizio, con governi (spesso anche quelli di centrosinistra) alle dipendenze di una visione angusta del potere che privilegiava gli interessi della valorizzazione del capitale (delocalizzazioni incentivate, regimi fiscali leggeri) e colpiva le residuali conquiste del lavoro (flessibilità, precarietà, attacco al ruolo delle rappresentanze sociali organizzate). Scossa nelle fondamenta dalla grande contrazione economica globale, la politica, che non è fuggita ma è rimasta insediata al potere con un paradigma omogeneo che sfuma le grandi differenze di un tempo, ha ben presto tramutato gli apostoli della libera concorrenza in alfieri inflessibili del governo dell’austerità che, in nome della asettica tecnica del risanamento, dirottava le scarse risorse pubbliche a sostegno delle banche, a tampone di un sistema finanziario in grave fibrillazione. È la politica che ha consentito che la crisi sociale venisse pagata dal lavoro con le scene abituali della disperazione delle piazze spagnole o gli incendi nelle strade greche o ha imposto come dogma incontrovertibile il pareggio di bilancio, autentico suicidio della democrazia in tempi di recessione. Se il populismo lievita nei consensi, e miete sostegno proprio nei ceti popolari, ciò accade non già perché non ci sia più la politica ragionevole e sobria al posto di comando, ma perché la sinistra europea ha smarrito la sua mappa concettuale e non è percepita più come una grande tradizione capace di riformulare le istanze di una radicale critica del capitalismo contemporaneo che lucra profitto solo obbligando al sacrificio delle libertà, delle aspettative, dei progetti di vita.
Se la politica europea è solo uno stanco esercizio di scrittura delle regole, non ha nulla da dire in risposta al disagio odierno. E la speranza degli esclusi passa attraverso lo choc di movimenti di protesta che in realtà rafforzano la alienazione, la marginalità sociale e offrono un sostegno alla riproduzione degli egoismi dei governi nazionali. Per questo, un assembramento europeo di tutti i partiti populisti come quello invocato da Le Pen, è un insultante ossimoro in quanto ognuno di essi si mobilita per ragioni nazionali esclusive e opposte a quelle di ciascun altro. Se la sinistra vuole dare un segno visibile di presenza deve cambiare alla radice la propria cultura. La politica è conflitto sui valori, lotta per fini collettivi tra loro in antitesi, non la riverenza ad asettiche tecniche affidate nella loro scrittura agli interpreti di una governance multilivello che, sulle sabbie mobili di un ibridismo pubblico-privato riduce i territori a mero spazio di mercato, occulta ogni ragione del pubblico, calpesta qualsiasi sensibilità per i beni comuni.
Sancire, come è accaduto sinora, che prima viene l’arida moneta e solo dopo seguirà la compatta sovranità (e forse un giorno persino lo spazio sociale acquisterà un ruolo accanto alla sacra fiducia degli investitori) non significa rinunciare alla politica ma equivale piuttosto ad affidare alla politica il compito di obbediente sentinella dei mercati e della finanza che rivendicano una autonoma potestà normativa. È giusto, come invoca il giurista tedesco E-W. Bockenforde, condurre «una lotta per ristabilire il primato della politica in spazi dominabili». Purché non si creda però che il liberismo sia un’arena senza politica, e quindi un mero spazio di mercato autoreferenziale senza responsabilità accertabili dei governi. La sinistra intende scacciare dalla vecchia Europa lo spettro del populismo? E allora ritrovi in fretta la sua anima sociale aggredendo il Fiscal compact, denunciando i patti di stabilità che annunciano sciagure, riformuli insomma la sua identità di forza di liberazione in perenne lotta contro le nuove esclusioni e nemica giurata dello sfruttamento che riappare in infinite maniere nel cuore di pietra del postmoderno.

L’Unità 25.03.14