Nel 1933, gli Usa avevano il prodotto interno lordo ridotto a due terzi rispetto a quello di quattro anni prima, il tasso di disoccupazione sfiorava il 25% e 15milioni di persone erano senza lavoro. Gli investimenti privati erano crollati del 90% e moltissime imprese stavano fallendo strette dai debiti. Per arrestare la spirale recessiva, il presidente Franklin Delano Roosevelt attuò un programma di interventi economici potentissimi che agivano sul lato dell’offerta e su quello della domanda, cercando di sostenere l’attività industriale e l’occupazione, anche a costo di gravi deficit di bilancio. I primi cento giorni della presidenza Roosevelt rimasero famosi perché il Congresso, stimolato dal governo, approvò, una dopo l’altra, una serie di leggi fra le quali un vasto programma di aiuti ai ceti più colpiti dalla crisi. Furono creati enti federali come la Federal Emergency Relief Admini-tration e la Civil Works Administration, il Civilian Conservation Corps (che assunse 500mila giovani, per impegnarli in opere di rimboschimento e di controllo delle acque), e la Tennessee Valley Authority che diede l’avvio all’industrializzazione degli Stati meridionali e costruì a San Francisco il grande ponte sul Golden Gate. Nel complesso furono costruiti o ristrutturati 2.500 ospedali e 45mila istituti scolastici, realizzati 1 milione di km di strade e 7.800 ponti, creati 13 mila parchi e piantati 3 miliardi di alberi, oltre a essere assunti il 60% dei disoccupati dedicati, in gran parte, ad attività di sviluppo del Paese. Tutto questo fu chiamato «new deal»: qualcosa in più, cioè, di una semplice riforma degli ammortizzatori sociali o della disciplina di bilancio.
UNA CURA INVECCHIATA?
Si dirà: sono passati ottant’anni e le cure di allora non è detto siano adatte alle economie di oggi. Giusto. Vediamo allora quali sono le ricette anti-crisi di Europa, Stati Uniti e Giappone e soprattutto quali sono gli effetti delle politiche economiche. La cura contro la crisi scelta dall’Europa ha come principio attivo l’austerità. Gli Usa e il Giappone hanno scelto, invece, gli stimoli.
La Federal Reserve System, un organismo simile alla Bce ma con poteri assai più ampi, ha sostenuto l’economia statunitense immettendo nel sistema qualcosa come 85 miliardi di dollari al mese. Janet Yellen, che Obama ha nominato al vertice della Fed dopo Ben Bernanke, si è preoccupata di tranquillizzare i mercati, le imprese (e i lavoratori) dichiarando che la banca centrale degli Stati Uniti andrà avanti con le misure di sostegno all’economia e che per il momento continueranno le immissioni di liquidità perché «la disoccupazione è ancora troppo elevata e alla banca centrale statunitense resta ancora molto da fare per aiutare l’economia e il mercato del lavoro». Già con Bernanke gli stimoli si erano ridotti (e in due volte) a 65 miliardi e sicuramente scenderanno ancora, man mano che migliorerà l’outlook economico. Non ci sarà, però, nessuna restrizione traumatica, anche perché per la Fed e la Casa Bianca la ricetta è semplice (e di buonsenso): si deve andare più lontano per riguadagnare il terreno perso nel corso della crisi.
Il presidente Obama ha deciso anche di intervenire sui redditi da lavoro, con una misura assai simile al Fair Labor Standards Act di Roosevelt, che consolidò il salario minimo. Il presidente Usa ha scelto di alzare il salario per i dipendenti federali a 10,10 dollari l’ora, nell’attesa di estendere la misura a tutti i lavoratori. Sebbene i lavoratori che percepiscono il salario minimo siano in realtà pochi, l’effetto sul mercato del lavoro non si è fatto attendere e i salari hanno ripreso a crescere. Analoga ricetta anche in Giappone.
Il capo del governo Shinzo Abe, dopo aver alimentato l’economia nipponi-ca con massicce immissioni di liquidità, ha annunciato la «wage surprise», un piano studiato insie- me a sindacati e industriali per far crescere le retribuzioni nominali. Secondo Shinzo Abe, infatti, solo grazie ai consumi delle famiglie il Giappone uscirà dalla fase deflattiva e l’economia nipponica si avvierà sulla strada di una crescita solida e sostenuta. Se la cura dei redditi, in atto negli Usa e in Giappone, è paragonabile al ruolo delle vitamine ricostituenti mentre si prende l’antibiotico, quest’ultimo è rappresentato dagli investimenti pubblici, senza i quali uscire dalla crisi è impossibile. Gli Stati Uniti e il Giappone stanno ammodernando i rispettivi Paesi: università, strade, ospedali, ferrovie, scuole. E il motivo è evidente: gli investimenti pubblici stimolano la produzione industriale e l’occupazione, mentre la crescita dei redditi delle classi medie e medio-basse stimo- la i consumi. Il tutto, naturalmente, va accompagnato da un’attenta politica inflazionistica. Anche l’aspettativa di un aumento dei prezzi, infatti, favorisce la ripresa, riducendo l’interesse reale sui debiti pregressi e inducendo coloro che detengono scorte liquide a spendere subito per evitare la svalutazione.
LA DIVERSA EFFICACIA
È evidente, quindi, come le ricette europee e nippo/ statunitensi siano abissalmente diverse, così come lontani anni luce gli effetti. I numeri, infatti, descrivono in maniera inequivocabile la diversa efficacia delle politiche economiche messe in campo da chi, come l’Europa, ha scelto l’austerità e chi, invece, ha scelto l’espansione.
Se le stime saranno confermate, il Pil dei Paesi dell’eurozona, alla fine di quest’anno e rispetto al 2010, sarà cresciuto appena dell’1,6%, mentre gli occupati saranno addirittura calati del 2%. Negli Usa, invece, il Pil potrebbe registrare un saldo del +9% e gli occupati del +3,4%. Andrà meno bene per il Giappone, dove il Pil registrerà comunque +4,7% e l’occupazione +1,4%. Non servono modelli econometrici particolarmente raffinati per capire che l’austerità, al contrario delle politiche espansive, allunga i tempi di uscita dalla crisi e fa crescere la disoccupazione. E a confermarne l’effetto nocivo c’è proprio l’Italia. Nel nostro Paese, il saldo del Pil, rispetto al 2010, potrebbe essere del -3,2% e l’occupazione del -4.6%. Perché ci si ostini nella somministrazione di un farmaco mortale rimane un mistero, visto che non c’è una ragione plausibile a tutto questo. Mentre basterebbe un po’ di buonsenso per capire che, proseguendo con la cura del rigore, viene proprio minata quell’idea di Europa che è stata alla base della sua nascita.
L’Unità 24.03.14