I giovani stanno lasciando il sud. E quelli che restano, stanno lasciando gli studi. La nuova divaricazione è drammatica, perché è sia tra il Mezzogiorno e il resto del Paese, sia tra il Mezzogiorno e l’alta formazione. La conferma viene dal Rapporto sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2013 reso pubblico nei giorni scorsi dall’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e la ricerca.
La crisi dell’università riguarda l’Italia intera. Perché se il numero di laureati dal 2005 al 2011 è stabile intorno ai 300.000 l’anno, il calo delle immatricolazioni è netto. Dalle 338.000 raggiunte nell’anno accademico 2003/2004 si è scesi ad appena 270.000 nel 2012/2013, con una perdita sec- ca del 20%. È un’autentica fuga dall’università. Un dato allarmante per l’intero Paese. Vi- sto che, secondo l’Ocse, il numero dei laureati in Italia raggiunge appena il 20% della popolazione in età compresa contro i 25 e i 34 anni; contro il 40% della media Ocse; il 60% circa di Giappone, Canada e Russia; il 64% della Corea del Sud. Certo, la frase è abusata: ma come dirlo, altrimenti? Con queste disparità, l’Italia si sta giocando il proprio futuro e il proprio ruolo nel mondo. Basterebbero solo questi dati a imporre di portare il problema dell’università italiana in cima all’agenda politica del Paese. Ma l’allarme raggiunge un livello, se possibile, ancora più alto quando si analizza la distribuzione geo- grafica della fuga. Le immatricolazioni, infatti, sono in calo del 10% al Nord, del 25% al Centro e arrivano addirittura al 30% nel Mezzogiorno. Sono dunque i giovani del Sud quelli che fuggono dalle università. Proprio i giovani di quelle regioni in cui la crisi economica morde di più e in cui la sola risorsa possibile su cui puntare è la cultura. Sono i giovani del Mezzogiorno che stanno rinunciando a considerare la formazione come un’opportunità. È stata la crisi economica che ha determinato una divaricazione di percezione: nell’anno 2005/2006, infatti, i giovani meridionali iscritti all’università aveva raggiunto quello dei giovani settentrionali (674mila contro 679mila). Nei sei anni accademici successivi, i giovani settentrionali iscritti sono leggermente aumentati (fino a 685mila), mentre il numero dei giovani meridionali è crollato a 613.000 (meno 9,2%).
Questa fuga dei giovani meridionali dalle università modifica i termini dell’antica e mai risolta «questione meridionale». Che ora non è più solo economica e sociale. Ma è sempre più una questione, appunto, culturale. Che non è una dimensione eterea. Al contrario, è una dimensione che ha effetti concreti. Continuando ad analizzare i dati, infatti emerge, che tra i pochi giovani meridionali che si iscrivono all’università, uno su quattro (il 25,4% del Mezzogiorno continentale e il 25,0% delle Isole) sceglie un ateneo fuori dalla propria regione. Contro il 9,0% dei giovani del Centro, l’8,8% dei giovani del Nord-Est e l’8,0% dei giovani del Nord-Ovest. Una quota parte importante dei giovani meridionali che si iscrivono fuori regione, va a studiare nelle università del Centro e del Nord. Dunque a lasciare il Sud non sono solo i laureati (170.000 negli ultimi dieci anni, secondo un recente studio di Unioncamere) che non trovano lavoro dalle loro parti, ma anche gli studenti. Ci sono dunque due fughe dei giovani meridionali. Una dagli studi superiori. L’altra dalle università del Sud verso le università del Centro e del Nord. Entrambe stanno determinando l’erosione della classe dirigente futura. Ma l’emorragia dei giovani è tale che, si calcola, una regione come la Basilicata potrebbe subire un vero e proprio calo demografico, con una popolazione che potrebbe diminuire di 50.000 unità su 574mila (quasi il 10%) nei prossimi anni.
Tutto questo il Sud non può permetterselo. Ma neanche l’Italia può permettersi un Mezzogiorno sempre più deprivato di giovani, di cultura e di classe dirigente. Come se ne esce? La domanda è della massima urgenza. E la risposta, in tutte le sue articolazioni, prevede un urgente intervento di natura politica. Prevede che la politica ponga la «nuova questione meridionale» in cima alla sua agenda. Certo, occorre muovere le leve economiche. Per far sì che emerga, nel Mezzo- giorno e non solo nel Mezzogiorno, un nuovo sistema produttivo che chieda giovani altamente qualificati. Ma occorre anche modificare profondamente quella politica dell’università che da anni sta spostando risorse, finanziarie e umane, dalle università del Sud verso le università del Centro e soprattutto del Nord.
Certo, molti atenei meridionali devono migliorare la qualità della didattica e della ricerca. Devono riformare se stessi, per espungere ogni forma di nepotismo e di cattiva organizzazione. Ma non è chiudendole o ridimensionandole, che si risolve il problema della qualità delle università nel Mezzo- giorno. Al contrario: solo una politica di espansione, con più risorse finanziarie e umane, può aiutare l’intero sistema universitario e l’intero Paese a uscire dalla condizione di marginalità cognitiva (e, quindi, economica) in cui ci stiamo cacciando.
L’Unità 24.03.14