«In Italia per trent’anni sotto i Borgia vi furono lotte armate, terrore, assassini e spargimento di sangue, ma ci furono anche Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, hanno avuto 500 anni di democrazia e pace, e che cosa hanno prodotto? L’orologio a cucù». (Orson Welles, in «The Third Man»). La battuta cattiva (la Svizzera non la merita) è di Orson Welles, un autore americano, quello che diresse anche un film famoso, «La guerra dei mondi». Ma serve a sottolineare che in un Paese possono coesistere cose molto brutte e molto belle. Come in Italia, dove ci sono molte cose che non funzionano nel presente, ma anche molte cose che hanno funzionato nel passato, e che in parte funzionano ancora. L’Italia ha un retaggio culturale impressionante. Non ci sono molte classifiche nelle quali l’Italia è la prima del mondo, ma almeno una c’è: come vedete qui in basso l’Italia, fra tutti i Paesi, ha il maggior numero di siti designati dall’Unesco come «Patrimonio culturale dell’Umanità».
Cosa c’entra l’economia con la cultura? C’entra molto, almeno se si usa la parola cultura in senso lato. Cominciamo a spiegare partendo dalle “catene di offerta”. Cosa sono le catene di offerta? É normale che un’impresa acquisti all’esterno le materie prime che le servono per produrre, ma quando l’impresa acquista anche tanti altri semilavorati da altri fornitori, o addirittura fa fare da altri intere fasi di lavorazione, si crea una catena: il prodotto finito passa lungo questi anelli della catena prima di raggiungere il cliente finale. Oggi questa espressione si usa specialmente quando gli “anelli della catena” sono sparsi per il mondo: abbiamo prodotti pensati in un luogo e realizzati, fase a fase, filo a filo, bullone a bullone, nei quattro continenti.
Ma c’è un’altra catena che ci interessa, ed è quella che lega il pensiero alla concezione, la concezione al progetto, il progetto al processo, il processo al prodotto… L’Italia si vanta – giustamente – di essere un grande Paese manifatturiero, ma cosa c’è all’origine di quest’altra catena, la “catena del valore”?
C’è – vi potrà sorprendere – la cultura. La cultura in senso lato, un senso che comprende il sistema educativo e la ricerca. Ma comprende anche – ed è qui il tratto italiano di questa “cultura” da cui zampillano produzione e benessere – l’immenso patrimonio artistico del nostro Paese. Un patrimonio che è molto di più di una collezione di musei e parchi archeologici. Perché è dalla linfa di quel passato che derivano i successi della nostra manifattura, dal “saper fare” accumulato nei secoli e tramandato di generazione in generazione, dall’amore per il lavoro ben fatto, da quella mescita di innovazione ed emulazione che segna le inimitabili fattezze dei distretti industriali (ne abbiamo parlato il 2 dicembre 2012 – e abbiamo citato quella frase di un grande economista, Alfred Marshall: «É come se i segreti del mestiere volteggiassero nell’aria»).
Ma oggi – e non da oggi – l’Italia arranca. In che misura la povertà della crescita italiana dipende dalla scarsa attenzione a quella culturale e primigenia sorgente? E che cosa si può fare per liberare quella sorgente dai detriti che la ostruiscono e riaprire quei canali che scorrono dalla cultura al prodotto, passando per l’immagine e il “racconto” dei nostri volti produttivi?
Possiamo rispondere a questa domanda costruendo un indice di “interesse per la cultura” e correlandolo all’andamento dell’economia.
La correlazione c’è, e la correlazione ha un’implicazione sorprendente. Un euro in più speso per la cultura scende lungo gli anelli della catena del valore: non è un sussidio ma un investimento. Non è il seme gettato fra i rovi nè quello gettato fra i sassi o sulla strada. É il seme gettato «sulla terra buona», capace di dare «frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta». Oltre all’effetto diretto sulla domanda vi è anche il cruciale impatto – indiretto ma reale – sulla immagine dell’Italia nel mondo, un’immagine che si riflette su tanti volti del nostro Paese, dallo spread al Made in Italy.
Non è possibile quantificare con scientifica precisione il frutto di “quell’euro in più” speso per la cultura. Ma in questo processo indiziario, gli indizi sono convergenti e pesanti. É sotto gli occhi di tutti l’incuria per il nostro patrimonio artistico (basti citare Pompei), l’incapacità di usare dei nostri capolavori per farne “racconti” capaci di proiettare un’immagine diversa: non l’immagine di oggi, l’immagine di un Paese mediocre che vive di un grande passato ma quella di un Paese che vuole attingere al passato per proiettare, qui e oggi, la coda brillante di una cometa che solca da secoli i cieli del globo.
Fervono, nel nostro Paese,a, le tristi polemiche sul “declinismo”. Polemiche che lasciano il tempo che trovano se non sono assortite di rimedi, se alle diagnosi e alle prognosi non seguono le cure. La diagnosi l’abbiamo appena esposta. L’Italia ha distolto lo sguardo dalle sue sorgenti, ha lasciato deperire le sue vere ricchezze, ha dimenticato di curare e innaffiare quella terra dove affondano le sue radici.
Ed è la diagnosi che detta la cura. É solo mettendo al centro dell’attenzione la questione cruciale della cultura che potremo ritrovare, attraverso quella proficua collaborazione fra pubblico e privato che finora è mancata, attraverso la moltiplicazione delle iniziative intese a una manutenzione ordinaria e straordinaria dello sterminato patrimonio culturale, l’orgoglio del nostro passato, la fiducia nel nostro presente e lo slancio verso il nostro futuro.
Il Sole 24 Ore 23.03.14