Grami restano i tempi per la cultura, ma non privi di qualche spiraglio di luce. Che sarebbe sbagliato trascurare. Il presidente del Consiglio è tornato a più riprese e da varie angolazioni sul nodo educativo-formativo. Con passione e con calore, occorre dire, il che non è ancora nulla, ma è già qualcosa. Il provvedimento sull’edilizia scolastica, per ora solo un annuncio, ha certo un tonificante sottotesto cantieristico, ma l’idea che le scuole debbano essere decorose e possano anche essere belle è, per l’Italia, una rivoluzione. Anche la cultura insomma, da sotto il suo sudario di noia compunta, inizia a riscuotersi, percorsa dal vento dell’attesa.
È il momento dunque di fissare alcuni punti e tirare alcune linee, a scanso di equivoci e di future delusioni.
Primo: l’insieme e non le parti. Il vero è l’intiero, diceva il compianto Giorgio Guglielmo Federico Hegel, ossia la verità è il tutto. La cultura di un Paese, e nello specifico del nostro, è fatta certo di vari e diversi settori, ciascuno con le sue gelose peculiarità, ma quel che conta è la visione e il funzionamento dell’insieme, la fisiologia e non l’anatomia. Dunque bisogna abbracciare in un solo sguardo formazione professionale e scuola, università e ricerca, tutela del patrimonio e industria culturale, promozione ed espressione artistica. Cose lontanissime, ma unite — non dimentichiamolo — nel vissuto, specie delle nuove generazioni.
Secondo: non pianti e non sogni, mete raggiungibili. Diamo per letta la litania delle nostre disgrazie. La formazione professionale che non c’è. I test Pisa (Program for international students assessment) dove arriviamo tra gli ultimi d’Europa. Il numero dei laureati troppo basso. I muri di Pompei che crollano (ma adesso si rubano anche gli affreschi…). Gli acquirenti di libri che da circa metà che erano sono diventati il 37%, cioè poco più di un terzo, della popolazione adulta. Le nostre maggiori imprese librarie (la principale tra le industrie culturali) che nel ranking mondiale arrivano dopo il trentacinquesimo posto. Guardiamo invece i nostri vicini di banco — tedeschi, inglesi, francesi e spagnoli, cioè i Paesi a noi comparabili — e siccome copiare qui si può e in alcuni casi si deve, vediamo di allinearci alla loro media nei principali indicatori. E cerchiamo però anche di dire in quanti anni ci vogliamo arrivare.
Terzo: soldi. Come, a quel che si dice, il Milan (io sono interista), non spendiamo poco, spendiamo male. Forse, mettendo insieme tutta la nostra spesa in cultura, si può trovare il modo di distribuirla meglio. Ha ragione il presidente del Consiglio a lamentare la perdita di dignità e prestigio sociale degli insegnanti, ma per restituirli, stante che non si può imporre una nuova tassa, bisogna sottrarre risorse a qualcos’altro. Cioè a qualcun altro. A chi, di preciso?
Quarto: le belle idee. Sulle quali vorremmo chiedere una moratoria. Ringraziamo di cuore per le tre i, per gli ukase sui libri digitali nelle scuole, per i bonus e i buoni di sconto che poi non sono buoni e non sono di sconto. E non dimentichiamo i certami, o campionati, tra primi della classe per determinare il super primo della classe regionale e il super primissimo nazionale. Ringraziamo, ma stiamo contenti così.
Quinto e ultimo: politica, politica, politica. La gestione della cultura, nel senso ampio che noi intendiamo, non è materia per specialisti. È politica, una delle porzioni più pregiate della politica, dato che in ultima analisi crea, valorizza e infine mette a profitto il fattore umano, il capitale umano. C’è dunque bisogno di politica, cioè di scelte, di indirizzi, di priorità, di tenacia, ma anche di prezzi pagati. E dietro alla politica c’è bisogno di pensiero politico, in assenza del quale il discorso sulla cultura diventa vanità e vacuità. Il destino culturale dell’Italia — che è forse la parte maggiore del suo destino — va pensato, meditato e deciso, non improvvisato. Non può essere e non sarà solo il risultato di mosse agili e fortunate.
Il Corriere della Sera 21.03.14