Chi è gravemente invalido, perciò non in grado di provvedere da sé ai propri bisogni quotidiani (lavarsi, vestirsi, prepararsi il cibo, mangiare, andare in bagno, ecc.), ha diritto a ricevere un sostegno dalla collettività per far fronte, appunto, a questi bisogni? Nella maggioranza dei Paesi europei la risposta è affermativa. A prescindere dal reddito individuale o famigliare, a chi è gravemente invalido viene garantita una qualche forma di ausilio per poter svolgere le attività basilari della vita quotidiana. Le differenze tra Paesi riguardano da un lato il livello di generosità, dall’altro il modo in cui questo ausilio è garantito e i criteri per accedervi. In alcuni paesi — ad esempio quelli scandinavi e l’Olanda — esso è garantito tramite i servizi, residenziali o domiciliari, modulati a seconda della intensità del bisogno. In altri, come in Francia e più recentemente Spagna e Portogallo, sulla base del livello di invalidità viene definita una indennità che va spesa per acquistare servizi di cura certificati. In questa direzione si sta muovendo anche l’Olanda, in alternativa all’offerta diretta di servizi, in nome della libertà di scelta. In altri Paesi ancora, come in Germania, si può scegliere tra servizi e assegno di accompagnamento.
Quest’ultimo, di valore inferiore ai servizi, può essere utilizzato come si desidera. In Italia dal 1980 c’è l’assegno di accompagnamento, la cui destinazione non è vincolata. Inoltre, a differenza che negli altri Paesi ove il sostegno è graduato, solo la non autosufficienza totale dà diritto all’assegno di accompagnamento, anche se i criteri per accertarla non sono standardizzati e possono variare di fatto da una commissione medica all’altra. Questa mancanza di standardizzazione, non solo i veri e propri imbrogli, spiegano la diversa incidenza degli assegni di invalidità a livello territoriale.
Da anni è in corso nel nostro Paese una discussione tra gli addetti ai lavori sulla opportunità di trasformare l’assegno di accompagnamento in un voucher servizi, analogamente a quanto è successo in Francia e in parte Spagna e Portogallo. Questa trasformazione avrebbe due effetti positivi: favorire un mercato regolare dei servizi di cura creando nuovi posti di lavoro e sollevare le famiglie (in particolare le donne), specie nei ceti più modesti, dalla necessità di provvedere alla cura in proprio. In assenza di decisioni politiche in questa direzione, di fatto molte famiglie hanno operato informalmente questa trasformazione, utilizzando l’indennità di accompagnamento per finanziare almeno un po’ di cura. Come è stato osservato da diverse studiose, il fenomeno è esploso in concomitanza con l’inizio dei flussi migratori nel nostro Paese, ove la regolazione della domanda e della offerta è stata affidata pressoché esclusivamente alle periodiche “regolarizzazioni” dei lavoratori migranti. Questa mancanza di regolazione, tuttavia, non ha solo lasciato tutti i soggetti coinvolti esposti al rischio di sfruttamento. Ha anche lasciato la disponibilità di accedere a cure non famigliari, o di poterne condividere una parte, alle risorse e alle priorità, non tanto della persona non autosufficiente, ma dei suoi famigliari. L’indennità di accompagnamento, infatti, nelle famiglie a basso reddito è spesso intesa come un’integrazione di una pensione o di un reddito famigliare insufficienti, più che come uno strumento per soddisfare i bisogni di cura di chi la riceve.
Con la spending review l’assegno di accompagnamento è entrato nell’elenco delle misure su cui si possono effettuare tagli sostanziosi, trasformando il sostegno nella vita quotidiana a chi non è autosufficiente in una misura legata al reddito, individuale e famigliare. Stante che, per essere finanziariamente efficace, la soglia di reddito dovrebbe essere relativamente bassa, migliaia di individui e famiglie in condizioni modeste sarebbero lasciati senza alcun sostegno a fronteggiare situazioni di grave debolezza. Mentre la standardizzazione dei criteri e il controllo degli abusi è doverosa, questa sarebbe una decisione sbagliata, non solo sul piano dell’equità, ma anche dal punto di vista dell’obiettivo di sostenere la ripresa dell’economia e del mercato del lavoro. Meglio utilizzare queste risorse per favorire la creazione di un mercato regolato dei servizi di cura. Molte famiglie perderebbero una integrazione di reddito, ma avrebbero in cambio servizi, invece di rimanere senza l’uno e gli altri.
La Repubblica 21.03.14