Il primo dossier Anvur su università e ricerca, a tre anni dalla nascita dell’Agenzia (ministeriale) di valutazione, ci dice che negli ultimi dieci anni statisticamente rilevati (1993-2012) la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita dal 5,5% al 12,7% e la quota dei laureati italiani tra i giovani (25-34 anni) è salita dal 7,1% al 22,3%, dimostrando che l’università è diventata accessibile e possibile per larghi strati della popolazione. Il problema è che non solo si parte da valori più bassi del resto dell’Europa sviluppata, ma il divario tende a crescere. Nell’Unione europea, in media, i laureati nella fascia “età da lavoro” oggi sono il 25,3%, in Francia il 42,9%, nel Regno Unito il 45%. Ancora nel 2008 avevamo uno scarto con la Ue di 11,8 punti percentuali (?), nel 2012 è salito è del 12,7% (?).
Sui diplomi di secondo livello (la maturità) siamo in linea con la Ue: 77,6% (età presa in considerazione 20-24 anni). Meglio di Spagna e Germania, peggio di Regno Unito (81,3%) e Francia (84%). Lo scarto, ecco, si verifica nell’ingresso in ateneo. E tra i giovani immatricolati il divario con l’Unione è contenuto (4%), la questione dell’università italiana è che non sa parlare a un pubblico adulto, altrove invece recuperato. Gli immatricolati con almeno 25 anni di età sono solo l’8% del totale, contro un valore medio del 17%. E la quota si va riducendo.
Nelle scelte delle matricole (iscrizioni al primo anno) scende (-4%) la facoltà di Lettere e Filosofia, cali più contenuti si registrano per Sociologia, Giurisprudenza, e Scienza della formazione. Incrementi superiori al punto percentuali si conteggiano per Medicina, Scienze matematiche e fisiche, Ingegneria. Crolla il Sud nelle immatricolazioni (-30%) e si assiste all’emigrazione di studenti verso gli atenei del Centro (soprattutto) e del Nord-Est. Infine, il dossier rivela che c’è un rapporto stretto tra il buon voto alla maturità e il portare a termine il ciclo di laurea.
Equilibri finanziari. Negli ultimi anni buona parte degli atenei italiani ha ridotto alcuni squilibri e il sistema universitario è stato ricondotto su un sentiero di sostenibilità economica, nonostante il calo delle risorse a disposizione. “L’ammontare degli investimenti appare nel complesso insoddisfacente nel confronto internazionale”, sostiene l’Anvur, che chiede “una riflessione ampia sulle dimensioni ottimali o almeno minime necessarie del sistema universitario e sulle risorse da investirvi”. Autonomia responsabile, è il principio ispiratore.
Dal 2009 il finanziamento complessivo del ministero dell’Istruzione al sistema universitario si è ridotto di un miliardo di euro: -13% in termini nominali, – 20% in termini reali. La riduzione delle risorse è stata resa sostenibile dalla riduzione del personale, soprattutto dei docenti ordinari, e dal blocco delle progressioni stipendiali. Il rapporto studenti-docenti si è riportato, oggi, su valori elevati. Nei prossimi cinque anni usciranno per pensionamento 9.000 docenti, il 17% del totale: “Sarà necessario assicurarne il ricambio per salvaguardare l’assolvimento del carico didattico e di governo degli atenei e il potenziale di ricerca del paese”.
Le università. Le 67 università statali italiane accolgono il 92% del totale degli iscritti (1,7 milioni). Quindi, ci sono 18 università non statali e 11 telematiche. Oltre il 40% degli studenti è iscritto agli undici grandi atenei del paese (40.000 studenti) e quasi il 70% frequenta uno dei 26 atenei “storici” fondati prima del 1945.
I dottorati di ricerca, importati nel nostro ordinamento solo nel 1982, hanno a lungo stentato, e in parte stentano ancora, a trovare un loro equilibrio e una loro fisionomia, ma costituiscono ormai un imprescindibile terzo livello della formazione terziaria.
Il numero complessivo di diplomi di laurea – triennali, ciclo unico, magistrali e diplomi del vecchio ordinamento – è stabile intorno ai 300 mila dalla metà dello scorso decennio. Nel 2011 sono stati rilasciati 169 mila diplomi di laurea triennale, 87 mila di laurea magistrale, 27 mila di laurea magistrale a ciclo unico e ancora 17 mila diplomi del vecchio ordinamento. La metà dei laureati ha conseguito la maturità classica o scientifica e la distribuzione dei voti di maturità dei laureati è decisamente più sbilanciata verso i valori più elevati di quanto non avvenga per gli immatricolati: c’è un rapporto tra successo accademico e voto conseguito alla maturità.
La composizione del complesso dei laureati per ripartizione geografica è rimasta stabile: dopo una flessione della quota degli atenei del Nord a vantaggio di quelli del Mezzogiorno, negli ultimi anni sembra delinearsi una inversione di tendenza. Emerge nell’ultimo decennio un ulteriore incremento della quota di laureati di genere femminile, che rappresenta ormai il 59% del totale.
I laureati. Tra il 1993 e il 2012 la quota dei laureati sulla popolazione in età da lavoro è salita di 7,2 punti percentuali. Tra i giovani in età compresa tra i 25 e i 34 anni del 15,2%. Incrementi rilevanti, che mostrano come l’istruzione terziaria non sia più limitata a una ristretta fascia di persone. I confronti internazionali, tuttavia, mostrano come l’Italia risulti ancora tra i paesi con la più bassa quota di persone in possesso di un titolo terziario, anche tra i più giovani, e come lo scarto rispetto ai valori medi europei nel tempo si sia (lievemente) allargato.
Le differenze con gli altri paesi dipendono dalla mancanza nel nostro paese di un’offerta di corsi di livello terziario (la laurea) di carattere professionalizzante, percorsi che nel resto d’Europa hanno un peso del 25% sul totale. L’offerta formativa da noi non permette alternative, dopo la maturità, tra un corso di laurea a contenuto prevalentemente teorico e l’abbandono degli studi. Un terzo degli immatricolati abbandona o cambia corso di studio dopo il primo anno: c’è un deficit nell’orientamento formativo e pure nella preparazione degli studenti. Quasi il 40% tra quanti si iscrivono a un corso di laurea triennale non conclude gli studi. Su 100 immatricolati solo 55 conseguono il titolo, contro il 70% europeo (il Regno Unito è al 79%). Il corpo delle lauree triennali è contraddistinto ancora da alti tassi di abbandono e di fuori corso, i cui laureati solo in poco più della metà dei casi proseguono gli studi iscrivendosi ai corsi magistrali.
Sul mercato del lavoro, la laurea, nonostante diffuse convinzioni contrarie, continua a offrire migliori opportunità occupazionali e reddituali rispetto al solo diploma di maturità.
Gli immatricolati. Dopo essere cresciuto di 54 mila unità tra l’anno accademico 2000-2001 e il 2003-2004, il numero degli immatricolati italiani si è poi ridotto di 69 mila fino al 2012-2013 (-20,4%). La flessione è stata contenuta tra i più giovani, in età compresa tra i 18 e i 22 anni (-7,6%), molto pronunciata tra gli studenti con 23 anni e oltre (-76%).
A fronte di un numero di maturi sostanzialmente stabile tra i 445 e i 455 mila, il tasso di passaggio all’università dei 18-19enni si è ridotto di 3 punti percentuali dal 2009, nonostante la crisi economica abbia ridotto le opportunità di lavoro al completamento degli studi secondari. Il calo degli immatricolati si concentra negli atenei del Centro e del Mezzogiorno e tra i diplomati degli istituti tecnici, che negli ultimi nove anni sono passati da 105 mila a 57 mila a causa di un calo del numero dei maturi e dei tassi di passaggio all’università. A fronte di una riduzione media del 20%, nelle università del Nord il numero delle matricole universitarie è sceso del 10%, negli atenei del Centro del 25, nel Mezzogiorno del 30.
Gli immatricolati che scelgono un ateneo in una regione diversa da quella di residenza nel 2011 erano il 21,8%, 1,4 punti in più rispetto al 2006. Il 25% degli immatricolati residenti nelle regioni del Sud e delle Isole sceglie un ateneo di un’altra ripartizione territoriale: il loro saldo migratorio è pari a -20,8% e -22,5% rispettivamente. È positivo per il Centro (+23,6%), per il Nord-est (+13,6) e per il Nord-ovest (+9,3).
La ricerca. Il più ampio processo di valutazione della ricerca mai condotto nel nostro paese conferma che l’Italia si caratterizza per una spesa in ricerca e sviluppo tra le più basse tra le grandi economie industriali. Il ritardo è dovuto principalmente alla spesa del settore privato, la metà della media europea. Anche le risorse pubbliche risultano inferiori alla media: lo 0,52% del Prodotto interno lordo, 0,18 punti in meno rispetto alla media dei paesi Ocse. Un gap di 3 miliardi di euro, un terzo delle risorse pubbliche oggi investite. Alle minori risorse corrisponde un minor numero di ricercatori e un minor potenziale di innovazione. . La quota dei fondi ottenuti è inferiore alla quota di contribuzione al budget dell’Unione: non riusciamo a riprendere neppure quello che stanziamo. Poche risorse investite e pochi ricercatori si traducono necessariamente in una minor capacità di competere per le ingenti risorse che l’Europa sta investendo in ricerca. Il tasso di successo dei ricercatori italiani e le risorse complessivamente ottenute risultano molto modeste. Il sistema nel suo complesso, caratterizzato da un’ampia presenza di enti di ricerca al fianco delle università, mostra tuttavia nei settori scientifici, dove più facile è il confronto internazionale, una qualità delle pubblicazioni che si colloca a ridosso dei principali paesi europei. Inoltre, in rapporto alle risorse investite e al numero dei ricercatori, la quantità e la qualità della ricerca appaiono elevate, segno di una produttività più che adeguata e di una vitalità che merita di essere valorizzata.
La Repubblica 19.03.14