Ezio Raimondi raccontava spesso che la sua carriera di filologo, di critico della letteratura, iniziò con la storia dell’arte. Giovane maestro elementare in attesa di partire per la guerra, seguiva a Bologna le lezioni di Roberto Longhi su Masaccio e Masolino. Longhi spiegava come Masaccio si fosse fatto da parte nella Cappella Brancaccio a Firenze e perché avesse lasciato il campo a Masolino. Dipendeva da un buco e da un chiodo. Erano il centro focale di un’immagine prospettica e mentre per Masaccio la prospettiva era una intuizione approssimativa – così diceva Longhi – per Masolino «assumeva il senso potente di una concezione spaziale del tutto nuova». Immense questioni: che però muovevano i loro passi da un buco e da un chiodo.
Raimondi, che ieri è morto quattro giorni prima di compiere novant’anni, era uno studioso capace come pochi di intrecciare linguaggi diversi, di transitare con scioltezza, grazie a una intelligenza fluente, da Dante ad Heidegger, da Céline a Caravaggio. Parlava come scriveva, si diceva di lui. E studiava come veleggiasse fra una sponda e l’altra, trascinato da una facoltà della comparazione e dell’associazione, un vento incessante che lui governava con naturalezza in un mare apparentemente senza confini. Non smarrendo mai, però, il senso del dettaglio, dell’accertamento puntuale: il buco e il chiodo.
Nato a Lizzano in Belvedere (il paese di Enzo Biagi), studi bolognesi, tesi di laurea sulle Familiares di Francesco Petrarca con Carlo Calcaterra, lo stesso professore di Pier Paolo Pasolini («ci avvicendavamo nella stanza del professore, però non più che uno sfiorarsi di fantasmi», raccontava), Raimondi era orgogliosamente ancorato alle proprie umilissime origini – il padre calzolaio, la madre donna delle pulizie. La carriera letteraria non era in antitesi con l’ambiente familiare: «Mi sentivo di dare continuità a quelle ragioni e a quel modo di essere. Entrando da adulto nel mondo del sapere, prolungavo il senso profondo della parola e del silenzio coltivato da quelle persone culturalmente modeste».
Ha insegnato a Bologna e a Baltimora, New York, Berkeley, Los Angeles. È stato professore e poi amico di Francesco Guccini. Ha diretto l’associazione Il Mulino. Ha pubblicato saggi su Alfieri, Machiavelli, Tasso, Manzoni, su Kafka, Gadda, D’Annunzio, Moravia… Ha analizzato le poetiche del Novecento e la retorica («l’arte di parlar bene, non solo il luogo delle falsificazioni»). È stato un intellettuale nel senso più rotondo del termine, uno specialista che andava oltre le raffinatissime competenze specifiche. Per lui la letteratura, diceva citando Hugo von Hoffmansthal, «custodisce l’eterno presente del passato e un critico letterario deve pensare che un testo non è il passato, ma il presente, incarnato in un oggetto fragile ma individuato». Grande cultore della civiltà tedesca, padroneggiava Ernst Robert Curtius e Martin Heidegger. Attraverso il primo, incrociato fin dal dopoguerra con la lettura di Francesco De Sanctis, si affezionò all’idea che la letteratura europea era un sistema trasmesso nei secoli grazie allo strumento della retorica, e che dentro quel sistema c’era anche la letteratura italiana: «Individuando il nostro posto in Europa, potevamo riacquistare la dignità perduta con la “morte della patria”». In fondo, aggiungeva, la letteratura «mi apparve come la parte migliore della nostra tradizione, un po’ come per Curtius lo spazio medievale europeo era il luogo di una fuga intellettuale dagli orrori del nazismo». Quanto ad Heidegger, confessava di aver espunto dal suo pensiero l’elemento nietzscheano e di aver dato maggior risalto «al tema dell’uomo comune: le sue parole offrivano, ai miei occhi, dignità e forza filosofica all’arrabattarsi quotidiano».
La letteratura è sempre un movimento in avanti, diceva. La tradizione va conservata, insisteva, ma continuamente messa in discussione, altrimenti diventa uno stereotipo. E ricondurre un testo ai suoi antecedenti non ne annulla l’individualità, bensì rintraccia l’individualità attraverso il rapporto con l’antecedente. «Ogni vita vera è un incontro », diceva prendendo l’espressione da Martin Buber. E se lo è per le persone non può non esserlo anche per i libri. Il suo insegnamento aveva una forza magnetica, che si sostanziava in una parola limpida, tanto scorrevole al punto che sembrava non dovesse finire mai, anche quando si era ridotta a una flebile voce. Che si riferisse a Guittone d’Arezzo o a Osip Mandel’stam.
O che si riferisse al paesaggio e al patrimonio storico-artistico, di cui aveva preso a occuparsi con costanza e competenza al punto da essere nominato presidente dell’Istituto per i Beni culturali dell’Emilia Romagna, un incarico assolto con una freschezza e una sensibilità sorprendenti in un uomo di studi apparentemente distanti. Raimondi elaborava pensieri fecondi sulla memoria trasmessa dai beni culturali e sulla loro tutela – beni culturali che ai suoi occhi comprendevano anche il vastissimo repertorio dialettale, per il quale auspicava la cura dovuta a un oggetto vivo. La sua concezione del paesaggio attingeva agli studi più accreditati, alla frequentazione di un grande geografo come Lucio Gambi, dal quale ereditava l’idea che il paesaggio, appunto, non era tanto elemento originario, vergine, «bensì entità condivisa fra natura e cultura, il risultato di un’operazione che chiedeva, anche da parte dell’analista, strumenti altrettanto adeguati». Quegli strumenti di cui Raimondi, anche in età avanzata, non smetteva di dotarsi, spinto dalla curiosità intellettuale e dal desiderio di condividere sempre le ragioni degli altri.
La Repubblica 19.03.14
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Raimondi da Dante a Manzoni La critica come avventura totale
Grande italianista, voleva «rendere razionale l’irrazionale», di Paolo Di Stefano
Ezio Raimondi è morto a Bologna alla vigilia dei novant’anni. Era nato a Lizzano in Belvedere il 22 marzo 1924.
Dal 1968 è stato più volte Visiting Professor nelle università di Baltimora, New York e California
Dal 1975 ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Bologna.
È stato a lungo presidente della Associazione di Politica e Cultura del «Mulino» di Bologna e Presidente del Consiglio editoriale della stessa casa editrice.
Tra le sue opere più note: «Il romanzo senza idillio», «Metafora e storia», «Le figure della retorica», «Tecniche dalla critica letteraria», «Anatomie secentesche», «Il concerto interrotto», «La retorica d’oggi», «Un’etica del lettore», «Il senso della letteratura», Ha diretto le riviste «Convivium» e «Lingua e stile».
È stata lunga la strada percorsa da Ezio Raimondi, che tra qualche giorno avrebbe compiuto novant’anni. Una strada partita da Bologna e terminata a Bologna. È stato un percorso lungo e faticoso, specialmente agli inizi. Un padre calzolaio senza negozio, che lavorava in casa: suo figlio Ezio parla della sua signorilità d’altri tempi, ma potrebbe parlare di sé. Stessa eleganza austera. Diversamente da suo padre, però, Ezio Raimondi non era chiuso in se stesso, come pago del suo lavoro. Raimondi aveva forse ereditato dalla madre, una donna di servizio venuta giù dall’Appennino, quella «energia tranquilla, ma vera», che gli ha permesso di costruire lentamente la sua straordinaria vita intellettuale fino a diventare autentico maestro di critica letteraria per tante generazioni di studenti e studiosi. Partendo, come si diceva, da un’infanzia difficile vissuta in via del Borgo, in un caseggiato povero. Papà Adolfo lo voleva artigiano, mentre mamma Dolfa impose il suo slancio costruttivo e volle mandarlo a scuola.
Il piccolo Ezio ha una vita parallela, sin dalla tenera età vive, più che in casa sua, presso una coppia di vicini senza figli. Il ragazzo ha due padri, quello che parla di più e lo stimola è l’altro, il signor Baratta, un operaio specializzato piuttosto colto che legge il «Corriere della Sera», lo porta a teatro e gli fa conoscere il canto: «Mio padre invece era una presenza segreta, vive nella mia memoria in certi gesti di signorilità taciturna, con quel toscano e quel suo vestito a festa della domenica, che contrastava con il grembiule sporco di vernice indossato gli altri giorni». Quando la casa, il 25 ottobre 1943, viene abbattuta dai bombardamenti, comincia una vita nomade. Il padre muore nel ‘45 per malattia, la madre non ha lavoro e il ragazzo fa il correttore di bozze in un giornale. «Ero alle due torri quando vidi arrivare i primi soldati polacchi. Con la Liberazione eravamo rimasti soli, ma pensavo che allora la storia si sarebbe data in modo tranquillo e ascendente». Intanto, madre e figlio trovano alloggio in una ex caserma, in via Mascarella, un solo locale che è cucina, studio e camera da letto insieme.
È lì che il giovane Raimondi, dopo aver frequentato le magistrali ed essersi iscritto a Lettere, appronta la sua tesi di laurea, una ricerca su Codro e l’umanesimo bolognese stabilita con il vecchio critico letterario ed erudito Carlo Calcaterra, lo stesso con cui si sarebbe laureato Pasolini sul finire del ‘45. È la madre partigiana che lo sostiene e lo incita. Gli regala la storia letteraria di Flora quando vede la pubblicità della Mondadori sui giornali. Ma intanto Ezio frequenta già la biblioteca dell’Archiginnasio, ha imparato il tedesco e subito dopo la guerra divora Sein und Zeit di Heidegger, ricevuto in regalo da una ragazza, legge per conto proprio Baudelaire, Kierkegaard e Stefan George, si avvicina alla letteratura americana tradotta dalla Medusa e dal Corbaccio, Faulkner soprattutto, scopre Kafka: «Per me, che non avevo fatto parte del mondo borghese liceale, ogni incontro era una sorpresa». Il suo cuore però, negli anni universitari, batte per Roberto Longhi: frequenta con passione le sue lezioni, ma quando il grande critico d’arte gli propone la tesi di laurea, Ezio rinuncia per motivi economici. Il suo ceto gli suggerisce di andare verso la letteratura e non verso una disciplina che sente troppo raffinata per garantirgli un futuro sicuro. Confesserà poi un’altra ragione: l’ironia di Longhi gli faceva paura.
Se ci siamo soffermati sui preliminari, è perché Raimondi non dimenticherà mai le sue origini, anzi sarà su quelle che fonderà la propria consapevolezza anche di studioso dalla bibliografia sterminata. Se n’è andato qualche giorno dopo la morte di Cesare Segre e con la loro scomparsa si chiude un’epoca in cui il rapporto tra etica e letteratura è stato quasi una necessità biologica, iscritta in biografie travagliate, spesso tragiche. Come Segre, anche Raimondi incontrerà nell’immediato dopoguerra il maestro di filologia Contini: ne ricaverà un insegnamento orientato più verso la critica verbale che verso la filologia-filologia. «Di Contini — diceva — mi colpì molto la capacità di tenere insieme attenzione alla parola e problemi interpretativi. Nella crisi dello scientismo ottocentesco, il problema allora era quello di accantonare il positivismo conservando le esigenze positive della ricerca. La questione specifica della letteratura, per Contini, stava nel rapporto tra razionale e irrazionale. E la sua critica verbale tentava di razionalizzare l’irrazionalità». Certo, per Raimondi, che passa dai classici alla contemporaneità internazionale, il testo letterario non è terreno di sperimentazioni scientiste (non sarà uno strutturalista), anzi per lui la critica sarà sempre «approssimativa e provvisoria, in funzione di un fenomeno individuale». Poca teoria: l’interpretazione è nel dialogo che il lettore riesce a intrattenere con l’opera. Il lettore operando nella solitudine e nel silenzio stabilisce un confronto individuale con il testo e con la tradizione in un dialogo «pluralistico e perciò antiautoritario». Da qui la forte tensione etica, si direbbe quasi spirituale, nella intima relazione con la letteratura.
Fatto sta che Raimondi, diversamente da tanti suoi coetanei, spazia sin dagli anni Quaranta, oltrepassando ogni ambito specifico. Le letture eterodosse che la biblioteca gli concedeva lo portano ben presto verso autori poco frequentati in Italia, in particolare i romantici tedeschi. Ma Raimondi riesce a giovarsi dei rapporti umani come pochi: amico di Franco Serra (lo studioso di filosofia tedesca che nel ‘48 tornando dalla Germania gli mette in mano l’opera di Curtius) e del poeta e francesista Giuseppe Guglielmi, che lo indirizza, tra l’altro, verso la lettura di Céline. Negli anni Cinquanta, dopo avere ottenuto l’insegnamento alla Facoltà di Magistero (1955), Raimondi incontra gli amici del Mulino, crocevia di liberalismo, socialismo riformista e cattolicesimo, per lui una seconda università, che lo apre al confronto con scienziati, con giuristi, con storici. «Il Mulino mi permetteva — disse — di dare senso politico al mio lavoro culturale senza farmi diventare un politico. L’ipotesi del gruppo era di procedere con una mentalità di riforme: e per me la scoperta della sociologia fu un modo per sostituire alla filosofia anche idealistica una forma di discorso più diretto alla realtà, interpretando il mutamento e dando prova di razionalità etica». Al Mulino, edizioni comprese, è rimasto legato per la vita. Divenne quella la sua casa, dopo l’esperienza di insegnamento negli Stati Uniti e il ritorno a Bologna, nel cui ateneo dal ‘75 ha insegnato Letteratura italiana. La sua passione irresistibile gli fece guadagnare l’appellativo ironico di «libridinoso», mentre gli allievi più impertinenti ne sottolineavano l’eloquio fluviale e ampio anagrammandone nome e cognome in «Inizia e dormo», ben sapendo piuttosto che quella fluvialità cordiale li avrebbe inchiodati all’ascolto.
Raimondi è stato definito uomo di prospettive, non di appartenenze. Lo dimostrano i suoi studi, che vanno da Dante a Gadda e Calvino, fino a Kafka, Faulkner e DeLillo, passando per il Rinascimento e il Barocco, sui campi di ricerca retorica prediletta. Nei suoi saggi sui Promessi sposi (Il romanzo senza idillio è del 1974) vengono messe alla prova le istanze narrative per rivelarne l’ironia come misura del «vero», la composizione multiforme che passa dal dramma al comico, la discontinuità e le contraddizioni, i giochi prospettici. Studiando l’amato Renato Serra, ha messo in rilievo quel che più gli stava a cuore: l’etica collettiva come vero motore della grande letteratura.
Il Corriere della Sera 19.03.14