Dopo circa 15 anni dall’ultima grande manovra di riduzione delle tasse, quella attuata nel 2000 dall’allora ministro dell’Economia Vincenzo Visco nel governo Amato, il nuovo governo Renzi ha deciso di tagliare le tasse ai lavoratori con basso reddito. Si tratta di un intervento da 10 miliardi di euro che interesserà circa 10 milioni di lavoratori i quali avranno un incremento del potere di acquisto di 80 euro mensili. È una scelta giusta attesa da tempo immemorabile che può rilanciare i consumi, passo fondamentale per sostenere la produzione, l’occupazione e gli investimenti delle imprese.
Immediatamente sono divampate le polemiche: la Banca Centrale Europea ha redarguito il governo italiano perché non sta attuando quelle misure necessarie per ridurre l’enorme debito pubblico. La critica della Bce è inaccettabile per due motivi fondamentali.
Primo, perché la Bce dovrebbe preoccuparsi di intervenire per ridurre il valore dell’euro che ormai è arrivato ad 1,4 rispetto al dollaro: l’euro forte sta distruggendo le economie meno competitive dell’Unione Monetaria rendendo vane tutte le politiche di riduzione del debito pubblico.
Secondo, perché il risanamento dei conti pubblici potrà essere ottenuto solo se ci sarà una ripresa dell’economia e la crescita dell’occupazione. Pertanto, se veramente si vuole ridurre il peso del debito pubblico, bisogna lanciare un grande piano di investimenti per avviare un nuovo ciclo di crescita. L’affermazione che politiche per la crescita e misure di risanamento possano coesistere è solo una grande menzogna. Senza maggiore occupazione non ci può essere la riduzione del debito.
Ricordiamo che Joschka Fischer, exbraccio destro del Cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder nei primi anni duemila, in un’intervista rilasciata un paio di anni fa aveva affermato che “L’attuale strategia chiaramente non funziona. Va contro la democrazia e va contro la realtà: lo sappiamo sin dalla crisi del 1929, dalle politiche deflattive di Herbert Hoover in America e del cancelliere Heinrich Brüning nella Germania di Weimar, che l’austerità in una fase di crisi finanziaria porta solo a una depressione. Sfortunatamente, sembra che i primi a dimenticarlo siamo proprio noi tedeschi”.
È necessaria, dunque, una svolta radicale nella politica economica europea. La Banca Centrale Europea deve attuare una consistente espansione monetaria per portare il tasso di cambio dell’euro in rapporto al dollaro ad un valore non più alto di 1,2. E considerando che in questa fase la pressione sui tassi di interesse si è allentata e che non c’è nessuna garanzia che le banche facciano affluire le maggiori risorse finanziarie nell’economia reale se questa non riprende a crescere, la Bce dovrebbe garantire l’emissione di Eurobonds per finanziare un grande piano di investimenti a livello continentale assicurando il pagamento delle spese per interessi sulle nuove obbligazioni.
Se tale linea di azione non sarà fatta propria dai principali paesi europei come la Germania e la Francia, la situazione potrebbe aggravarsi per il crescente sentimento antieuropeista che sta montando non solo in Italia ma nella maggior parte dei paesi in difficoltà. In Italia, da tempo, stanno circolando proposte molto drastiche tra cui il ritiro delle risorse che sono state versate nel Fondo Salvastati, superiori a 40 miliardi di euro, la costituzione di un Euro del Sud Europa e addirittura l’uscita dell’Italia dall’Unione Monetaria Europea.
La nostra speranza è che l’euro possa sopravvivere, ma perché ciò avvenga occorre che vi sia un netto cambiamento della politica economica e che si passi dalle invocazioni alla crescita e alla lotta alla disoccupazione ad azioni concrete che siano in grado di rilanciare il progetto di integrazione europea.
La Repubblica 18.03.14