La scrittura orale è uscita rapidamente dagli sms e dalle chat, per finire sempre più spesso nelle mail, nei blog e nei più disparati generi di siti web, contagiando anche il giornalismo e la letteratura. (da “Introduzione alla semeiotica dei nuovi media” di Giovanna Cosenza – Laterza, 2014 – pag. 161)
Sappiamo tutti che il “Quarto potere”, celebrato nel film “Citizen Kane” di Orson Welles del 1941, è quello che il potere economico esercita attraverso i mass media, tradizionalmente la stampa e la televisione, per influenzare l’opinione pubblica nei suoi comportamenti e nelle sue scelte. È la “fabbrica del consenso” che negli ultimi vent’anni ha prodotto in Italia il regime televisivo, fondato sulla concentrazione pubblica e privata del duopolio Rai-Mediaset, a cui abbiamo dedicato tanti articoli in queste pagine.
Ma ormai, nella società della comunicazione, si va imponendo sempre più un “Quinto potere”, come s’intitola un film più recente che racconta le vicende di Julian Assange e il caso Wikileaks: il potere dei new media.
A differenza dei giornali e della tv, qui si tratta però di un potere più diffuso, capillare. E quindi, almeno in teoria, anche più democratico, perché esercitato direttamente da tutti i cittadini che navigano su Internet, frequentano i social network, usano gli smartphone e i tablet, come fa anche il nostro giovane presidente del Consiglio nella gestione quotidiana della sua “politica pop”.
Si potrebbe chiamare dunque “Comunicrazia” questo nuovo potere, con un sincretismo che fonde comunicazione e democrazia. Un’attività che trova già un’applicazione nel “citizen journalism”, il giornalismo spontaneo, partecipativo. Ma si espande di giorno in giorno su scala planetaria attraverso la “sbornia mediatica” che coinvolge individui di ogni età, cultura e condizione.
C’è tuttavia qualche rischio in questa tendenza. E deriva proprio dalla facilità di accesso alla Rete, dalla contagiosa eccitazione che ne promana, dalla smania e dall’ebbrezza della comunicazione in tempo reale. È una questione di contenuti, di linguaggio, di toni, accentuata dalla ristrettezza degli spazi nelle mail, negli sms e, in particolare, nei 140 caratteri obbligatori di Twitter.
“Negli ultimi dieci anni – scrive l’autrice del libro citato all’inizio di questa rubrica, docente di Semeiotica all’Università di Bologna – molti studi psicologici hanno sottolineato gli aspetti ossessivi più preoccupanti del bisogno di contatto continuo con gli altri, con un’attenzione particolare agli usi del cellulare da parte dei teenagers”. Ma lei stessa aggiunge che si tratta di “comportamenti sempre più trasversali dal punto di vista generazionale”. E il peggio è che “a volte il bisogno di stare sempre in linea è così impellente da scatenare ansie e comportamenti compulsivi”.
Il fenomeno riguarda almeno tre attività online: il gioco, la frequentazione di siti pornografici e, appunto, lo scambio continuo di mail o di “messaggini”. In tutti e tre i casi, si registra spesso un uso eccessivo fino al punto di trascurare addirittura bisogni primari come la fame e la sete; la frequenza delle crisi di astinenza; l’assuefazione che porta al desiderio di possedere e usare tecnologie sempre più potenti e aggiornate; e infine ripercussioni negative sulla vita sociale dell’individuo, tra cui la tendenza a mentire o a litigare, comportamenti aggressivi, isolamento e stanchezza.
È il trionfo di quella che i linguisti definiscono la “scrittura orale” o “scritto-parlato”, in rapporto all’immediatezza e alla rapidità della comunicazione real time che simula il faccia a faccia. L’autrice del saggio la chiama piuttosto “rinascita della scrittura” e “ipergrafia”: per dire che “si scrive tanto, sempre, troppo, al punto che molti preferiscono scriversi invece di parlarsi”. Una sorta di afasia di massa, insomma, che impoverisce, radicalizza o addirittura spegne il confronto e il dialogo.
Chiunque usi abitualmente le mail, gli sms o — a maggior ragione — i tweet, ne ha fatto sicuramente esperienza personale. La semplificazione degli argomenti è all’ordine del giorno. Il malinteso o l’equivoco è sempre in agguato. Il litigio o la rissa verbale è dietro l’angolo.
Quale può essere, dunque, l’antidoto? Si deve fare affidamento, innanzitutto, su quella che Pierre Lévy, il filosofo francese che ha studiato più a fondo l’impatto di Internet sulla società, chiama l’intelligenza collettiva: e cioè “un’intelligenza distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze”. E ovviamente, bisogna stabilire e osservare regole condivise di rispetto reciproco. Ma, come avviene per qualsiasi altro diritto, anche qui vale la regola aurea dell’autocontrollo e dell’autodisciplina: la libertà di comunicare si può imparare soltanto esercitandola.
La Repubblica 15.03.14