Una collega negli ultimi cinque anni, ha portato all’Università contratti per mezzo milione di euro, completamente reinvestiti nel suo laboratorio. Ma, dal momento che la sua produttività scientifica misurata con i parametri Anvur sembra non essere sufficiente, non ha ottenuto l’abilitazione da professore associato, anche se insegna da anni. L’acquisto di un toner richiede una quantità di tempo enorme e ingiustificata: serve un preventivo, il Cig, poi la ricerca del prezzo migliore sul MEPA (Mercato Elettronico per la Pubblica Amministrazione). Non va meglio quando serve una marca da bollo. Di fronte a questi racconti, i colleghi esteri sono increduli. Per mettere i ricercatori in condizione di lavorare meglio si potrebbe almeno cominciare a rimborsare senza troppa burocrazia gli scontrini del toner. La differenza La differenza principale con l’estero può essere sintetizzata con il rispetto per il lavoro di ricerca e il vedere i ricercatori come una risorsa, non come un problema.
Quando un’università estera assume un nuovo ricercatore, è consapevole di fare un importante investimento: quindi ha tutto l’interesse a metterlo in condizioni di lavorare e produrre prima e meglio possibile. Un ateneo del Nord Europa, ad esempio, concorda un pacchetto start up di almeno 50.000 euro più un paio di dottorandi pagati. Dopo il dottorato in Italia, e cinque anni di ricerca tra The Scripps Research Institute di San Diego (California) e Aahrus University (Danimarca), ho vinto un concorso da ricercatore universitario alla Sapienza Università di Roma. Il mio primo giorno di lavoro ho ricevuto le chiavi del laboratorio dove avevo svolto la tesi, con i reagenti chimici degli anni Cinquanta e una strumentazione già obsoleta allora, e una tessera per fare 1.000 fotocopie. Nient’altro. Costavo alla collettività, ma apparentemente non interessava che fossi privo degli strumenti per lavorare (e produrre) come all’estero. Finalmente ho ottenuto qualche fondo di ricerca dal mio Ateneo e ho sviluppato una reazione organocatalizzata (ovvero senza l’uso di metalli di transizione potenzialmente tossici) che produce in modo efficientissimo una struttura molecolare complessa tramite una chimica innovativa; nel 2012, un’industria farmaceutica svizzera ha sviluppato un suo processo chimico basandosi sulla mia reazione. Lo sviluppo di questa reazione ha permesso di ridurre l’uso dei solventi da 10.000 litri a 200 per ogni Kg di prodotto finale, limitando l’impiego di materiali derivati da combustibili fossili. Grazie a questi risultati, ho avviato collaborazioni con alcune industrie e reperito fondi di ricerca: la chimica verdeche amano le industrie è la chimica efficiente.
I lacci della burocrazia.
Il mio gruppo di ricerca collabora con un’industria. Ho appena firmato un contratto da 25.000 euro di cui l’università prende subito il 15% ai fini amministrativi. In segreteria, mi è stato detto che l’azienda in questione avrebbe dovuto apporre sul contratto una marca da bollo da 16 euro: mi sono vergognato di chiederla, così sono andato in tabaccheria e l’ho comprata di tasca mia.
L’acquisto di un toner non è più semplice: serve un preventivo, il Cig, poi la ricerca del prezzo migliore sul MEPA (Mercato Elettronico per la Pubblica Amministrazione). Una procedura che richiede una parte enorme e ingiustificata del mio tempo: così, per fare prima, finisce che vado in un negozio e pago direttamente i 40 euro per il toner.
Dal momento che costo alla comunità circa 50.000 euro lordi l’anno, lo Stato non riesce a garantirmi qualche centinaia di euro (di fondi che reperisco io, tra l’altro) da spendere in modo semplice presentando gli scontrini come i deputati.
Una mia collega lavora nel campo delle analisi delle acque. Negli ultimi cinque anni, ha portato all’Università contratti per mezzo milione di euro, soldi che – tolta la quota che va all’amministrazione centrale – ha completamente reinvestito nel suo laboratorio. Ma, dal momento che la sua produttività scientifica misurata con i parametri Anvur sembra non essere sufficiente, non ha ottenuto l’abilitazione da professore associato, anche se insegna da anni. È così sfiduciata che non è più così convinta di continuare a cercare contratti per il nostro Ateneo, da cui non riceve alcuna gratifica. Io ho ottenuto l’abilitazione a professore associato, ma solo pochissimi di noi potranno essere chiamati dal nostro dipartimento.
Quando racconto la mia situazione, i colleghi esteri sono increduli, ma purtroppo questa è la prassi comune in Italia. Per mettere i ricercatori in condizione di lavorare bene – soprattutto quelli che hanno meno possibilità di interagire con le industrie – basterebbe qualche piccolo sforzo, come quello di rimborsare senza troppa burocrazia gli scontrini del toner. La differenza principale con l’estero può essere sintetizzata con il rispetto per il lavoro di ricerca e il vedere (e soprattutto sfruttare) i ricercatori come una risorsa, non come un problema. La politica, con pochi interventi mirati a costo zero, potrebbe migliorare enormemente la produttività della ricerca italiana.
Noi continuiamo a tenere duro perché i nostri studenti sono persone eccezionali: solo questo ci dà lo stimolo ad andare avanti.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente su: Universitas, Numero 131 del febbraio 2014. Si ringrazia la redazione di Universitas per il permesso di riprodurlo.
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