In una delle schede preparate dal commissario per la spending review, Carlo Cottarelli, c’è scritto che i tagli alle retribuzioni statali dovranno riguardare anche quelle dei dirigenti delle «società pubbliche». Vuol dire allargare la platea, andare ben oltre i dirigenti dei ministeri o delle Regioni, i primari degli ospedali, in vertici delle forze armate. La burocrazia in senso stretto. E d’altra parte solo così si può pensare di raggiungere l’obiettivo indicato dal premier, Matteo Renzi, di ottenere 500 milioni di euro di risorse da utilizzare per finanziare il piano di redistribuzione del reddito annunciato mercoledì pomeriggio da Palazzo Chigi.
Perché se è vero che i dirigenti della pubblica amministrazione italiana guadagnano mediamente più dei rispettivi colleghi di Francia, Gran Bretagna e Germania, è anche vero che sono pochi (quelli di prima fascia tra i ministeriali sono circa 300) e che, dunque, per raggiungere un risparmio così imponente bisognerebbe più che dimezzare il loro stipendio. Una strada impervia che permetterebbe di conseguire un risultato del tutto al di sotto delle necessità. Vale la pena ricordare che quando nel 2010 il governo Berlusconi decise di ridurre gli stipendi dei burocrati pubblici “cifrò” quell’operazione a 25 milioni. Un livello decisamente distante dai 500 milioni che ha indicato Renzi. Peraltro la norma del 2010 è stata poi dichiarata incostituzionale dalla Corte costituzionale perché determinava «un irragionevole effetto discriminatorio ». E così anche quei 25 milioni non sono arrivati.
È un’altra, dunque, la strada che dovrà imboccare il governo. Alla Ragioneria generale i tecnici sono stati messi in preallarme. Nei giorni scorsi sono state simulate alcune soluzioni soft che però raggiungono con difficoltà i 500 milioni di incasso. Per ora ci si muove con cautela. Sembra che Renzi abbia in mente un nuovo tetto retributivo: non quello del primo presidente della Corte di Cassazione (poco più di 311 mila euro lordi l’anno, sul quale oggi “galleggia” una fetta significativa dei grand commis di Stato), bensì quello un po’ più basso del Presidente della Repubblica che si ferma a circa 248 mila euro l’anno. «È giusto — ha detto ieri Renzi — che un manager della pubblica amministrazione guadagni più del Presidente della Repubblica? ». «No», ha risposto.
È stato il decreto “salva Italia” dei governo tecnico di Monti a introdurre il tetto alle retribuzioni pubbliche. Ma con una serie di deroghe che — per quanto trapela — il nuovo esecutivo punta a superare. O almeno vorrebbe provarci. Perché Monti escluse dal vincolo (che vale per la dirigenza) i manager delle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato «che emettono esclusivamente strumenti finanziari, diversi dalle azioni, quotati nei mercati regolamentari », cioè obbligazioni. Una norma che ha consentito alle Ferrovie di Mauro Moretti (873.666 mila la sua retribuzione nel 2012) e anche alle Poste di Massimo Sarmi (2,2 milioni nel 2012) di non essere coinvolte. Le Poste dovrebbero essere privatizzate e quindi sono destinate ad uscire nuovamente dal prossimo provvedimento. Si vedrà invece se e in quale modo saranno interessate le Fs, la Rai, la Cassa depositi e prestiti, il cui ad Giovanni Gorno Tempini ha portato a casa nel 2012 oltre un milione di euro, e le decine di controllate: da Invitalia (788.985 nel 2012 per l’ad Domenico Arcuri), all’Anas (750.000 per l’amministratore unico, Piero Ciucci), al Poligrafico Zecca (oltre 600.000 euro per l’ad Massimo Prato), all’Enav (502.820 per l’amministratore unico Massimo Garbini), alla Consap (473.768 euro per Mauro Masi già direttore generale della Rai), alla Consip (475.410 euro per Domenico Casalino), per limitarsi a quelle con i manager più pagati.
E la partita sui super-stipendi pubblici finirà per incrociarsi con quella che si sta aprendo sulle nomine per i vertici delle grandi aziende pubbliche, Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste. D’altra parte era stato lo stesso Renzi, da segretario del Pd e non ancora da presidente del Consiglio dei ministri, a far sapere di essere rimasto sconcertato nel leggere le retribuzioni dei capiazienda pubblici. Dal premier ieri è arrivata un’interessante dichiarazione: «Prima di ragionare dei nomi o del mix tra amministratore delegato e presidente, saremo molto decisi e determinati nel decidere cosa devono fare queste cinque aziende. Non è banale». Nessun nome («su questo non si scherza», ha aggiunto) ma soprattutto: «Prima la missione, la strategia, poi i nomi». Parole che andranno rilette e interpretate perché — va da sé — quella è una frase che non esclude nulla: né la conferma (per Paolo Scaroni dell’Eni e Fulvio Conti dell’Enel sarebbe il quarto mandato e addirittura il quinto per Sarmi) né un cambiamento radicale. Anche se è difficile pensare che la spinta del rottamatore possa fermarsi di fronte alle nomine dei boiardi di Stato strapagati. A metà aprile ci saranno le assemblee, ma le liste di Renzi (e del ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan) dovranno essere pronte prima.
La Repubblica 14.03.14