Non è stato quel mercoledì da leoni che si poteva immaginare. Ma nemmeno quel giorno da pecora che si poteva temere. In un giorno solo, Matteo Renzi ha incassato un cospicuo «dividendo » politico. Il via libera della Camera alla riforma elettorale, che con tutti i suoi difetti materiali e costituzionali si rimette comunque in moto dopo otto anni di immobilismo. Il via libera del Consiglio dei ministri al pacchetto «lasvoltabuona », che con tutti i suoi svarioni tecnici e mediatici indica comunque la volontà di accelerare la fuoriuscita dalla crisi.
Depurata da un tasso intollerabilmente alto di autocelebrazione retorica e propagandistica — che per troppe volte lo spinge a parlare di «rivoluzione impressionante per l’Italia » e di «passaggio storico incredibile» — il messaggio del premier in conferenza stampa oscilla tra lo shock e lo spot. Lo shock è evidente. Quando a dieci milioni di poveri italiani a reddito fisso, gravati da almeno cinque anni di saio fiscale, annunci uno sgravio in busta paga da circa mille euro all’anno a partire dallo stipendio del 27 maggio prossimo, l’effetto scossa
è garantito.
Equando alle piccole e medie imprese, stremate da cinque anni di recessione in cui sono bruciati 135 miliardi di ricavi, annunci un taglio di 10 punti dell’Irap finanziato con l’aumento delle rendite finanziarie al netto dei titoli di Stato, l’effetto-svolta è assicurato. Intanto, fai due cose ad alto impatto sociale e perequativo che, se ormai non suonasse così retrò, una volta Norberto Bobbio avrebbe potuto definire con legittimo orgoglio «di sinistra». Per la prima volta dopo molti anni, dai un segnale immediato alla «povera gente» di La Pira, e sposti finalmente un po’ di tassazione dal lavoro alla rendita.
La rottura rispetto al passato c’è, ed è netta. Renzi giustamente non vuole ripetere l’errore di Prodi nel 2006 e di Letta nel 2013, dando poco a tutti. Il «derby» tra lavoratori e imprese, per adesso, si risolve tutto a favore dei primi, e con un piatto non di lenticchie ma di 10 miliardi di euro. Non importa se le stime sugli effetti delle due misure alternative sono discordanti (secondo il Tesoro tagliare l’Irpef produce uno 0,8% di aumento di Pil, mentre secondo Prometeia tagliare l’Irap fa aumentare il reddito nazionale dell’1%). Quello che importa è fare una scelta netta. E Renzi la fa. Ma le buone notizie finiscono qui. Per adesso il presidente del Consiglio lo shock al sistema lo può solo annunciare a parole, e non somministrare nei fatti.
Qui si annida lo spot elettorale. Nelle novità anticipate da Renzi, di operativo ed immediatamente esecutivo c’è assai poco. Gli sconti Irpef, così come lo sgravio Irap, «entreranno in vigore dal primo maggio». Ma questa è solo una promessa, non ancora scritta in alcun provvedimento di legge ma solo nella «relazione» illustrata dal premier ai ministri e poi ai cronisti. E con le «relazioni» non si mangia, né si fa crescere nessun netto in busta paga. Quando saranno presentate le misure concrete? Saranno decreti o disegni di legge? Come nella peggior tradizione tremontiana, il premier glissa e rinvia tutto al varo del Documento di Economia e Finanza.
La stessa cosa vale per le altre «grandi riforme ». Sul fronte politico, il disegno di legge costituzionale che abolisce il Senato non è ancora presentato né incardinato, ma solo trasmesso ai partiti perché ne valutino i contenuti. Sul fronte economico, il famoso «sblocco totale» dei debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese è affidato a un disegno di legge, i cui tempi medi di approvazione non sono mai inferiori agli 8-10 mesi. Tenuto conto che 22 miliardi li aveva già restituiti il governo Letta nel 2013, e altri 27 miliardi erano già stanziati dalla legge di stabilità, non c’è molto da esultare. Il mitico «Jobs Act», con l’assegno di disoccupazione universale e il salario minimo garantito, è affidato a un disegno di legge-delega, quindi all’erratica volatilità del Parlamento. Tenuto conto che per convertire la vecchia legge delega sul fisco ci sono voluti due anni, non c’è molto da festeggiare.
Al fondo, le poche iniziative reali, che scattano subito, sono quelle che danno attuazione agli impegni già assunti dal governo precedente. Dall’edilizia scolastica all’ampliamento del Fondo di garanzia per le pmi. Dal taglio del 10% delle bollette elettriche alla tutela del dissesto idrogeologico. Poco di nuovo. Se non l’energia e la determinazione che Renzi sprigiona e trasmette, e che diventano il nucleo duro e quasi a se stante della sua missione e della sua comunicazione politica. È attraverso quell’energia e quella determinazione che sei indotto a valutare il capo del governo. È su questa base che lui stesso ti chiede di credergli. Contro tutti quelli che lui chiama «i gufi».
Ma questo è un «atto di fede», più che un «fatto politico». Lo puoi accettare quando ragioni sul futuro dell’Italicum. Molto meno quando rifletti sui conti dell’Italia. E qui sta un altro punto debole della «macchina del consenso» renziana. Le coperture finanziarie restano ancora troppo incerte, e quasi tutte una tantum. Dalla spending review (che per Renzi vale 7 miliardi, mentre Cottarelli la contiene a 3) al risparmio dell’onere per interessi sul debito (che oggi con lo spread a 177 vale X, domani con lo spread a 300 può valere Y). Dalle norme sul rientro dei capitali dall’estero (che qualcuno cifra in 5 miliardi, qualcun altro in 2) al «tesoretto» che ci separa dal tetto del deficit al 3% (che vale lo 0,6% rispetto al Pil, ma non è interamente spendibile). La disinvoltura di Renzi è eccessiva, e stride con la prudenza di Padoan. Soprattutto perché ciascuna di queste coperture implica una correzione del Fiscal compact, e quindi dovrà essere sottoposta al vaglio della Ue. È giusto che il premier voglia negoziare senza complessi con i nostri «tutor» a Bruxelles, tentando anche di rimettere in discussione i paradigmi di un rigore a volte incomprensibile, soprattutto per i popoli d’Europa. Ma queste, finché non sarà chiaro l’esito del negoziato, restano comunque incognite gigantesche, che pesano come macigni sul governo e sulla sua «svoltabuona». Le istituzioni comunitarie, purtroppo, non le convinci con un hashtag, ma con la solidità dell’impegno che assumi, e con la serietà con la quale lo onori.
Per questo, al di là dell’elevata seduzione politica che il suo «manifesto» esercita sull’opinione pubblica (a partire proprio dalla «rinsavita» Cgil di Susanna Camusso), il giudizio sulla manovra va congelato. E va rimandato ad una fase attuativa che sarà fatalmente più lunga di quella che lo stesso premier immaginava, se è vero che adesso proprio lui (che ha fatto della «velocità» la sua cifra di leader) è costretto a spiegare ai giornalisti «se volevate cambiare il mondo domattina con 42-43 decreti legge, ebbene, ve lo dico da laureato in diritto amministrativo, questo è impossibile ». Bentornato nel mondo reale, viene da dire. Soprattutto in una democrazia bloccata come la nostra, il governo non si può esaurire nel comando. Persino il Grande Rottamatore è costretto a sperimentarlo sulla sua pelle. Non è una buona ragione per fermarsi, e desistere di fronte ai «no» di qualunque altra «casamatta del potere ». Ma il compito resta immane in un’Italia ancora sotto stretta sorveglianza, così vicina alla Slovenia e così lontana dalla Germania. Come resta incerto il destino della riforma elettorale, appeso all’«amore» innaturale tra un ex Sindaco e un ex Cavaliere, e sospeso in un Senato che si può trasformare in un Vietnam. Un azzardo nell’azzardo. Che obbliga l’acrobata all’ultimo avvertimento: «Se non supero il bicameralismo perfetto, considero chiusa la mia esperienza politica ». Un altro modo per dire, agli amici e ai nemici; con questo shock-spot provo a vincere le europee, ma se non ci riesco in autunno si torna a votare.
La Repubblica 13.03.14