Tra mille agguati e mille affanni la cavalcata di Matteo Renzi si avvia a superare il primo ostacolo, l’approvazione alla Camera della legge elettorale. Ma il successo non dovrebbe illudere troppo il premier, sia perché il passaggio del testo al Senato si annuncia ancor più tempestoso, sia perché è sulla partita economica che si gioca l’azzardo più importante per le sorti del suo governo.
È su questo terreno, infatti, che il neo-inquilino di Palazzo Chigi spera di stringere quella alleanza con la gran parte dei cittadini italiani che potrebbe consentirgli di abbattere le barricate che partiti, a cominciare dal suo, sindacati e Confindustria si apprestano a elevare per opporsi ai suoi progetti. Ecco perché l’appuntamento con le elezioni europee del 25 maggio è fondamentale per Renzi e a questo obiettivo sono subordinate tutte le scelte che, in questi mesi, si appresta a compiere.
Un significativo successo elettorale permetterebbe al premier di far dimenticare «il peccato originale» della sua presa del potere, la manovra di palazzo che ha estromesso Enrico Letta da Palazzo Chigi, ma anche di legittimare nella forma più indiscutibile, quella del consenso democratico, sia i suoi progetti, sia il metodo per attuarli.
Non desta alcuna sorpresa il fatto che Renzi sia riuscito, già nei primi giorni di lavoro del suo governo, a mettersi contro il maggior sindacato del nostro paese, la Cgil e, contemporaneamente, pure la Confindustria. Può essere un rischio mortale per il suo governo, ma è una strada obbligata, perché è la conseguenza logica di una domanda con risposta incorporata: si può lottare contro le corporazioni con l’aiuto delle corporazioni? Ma alla prima domanda, ne segue una seconda: come si fa a pensare di sconfiggere una coalizione di resistenze così formidabili? Anche a questo secondo quesito, c’è una risposta scontata, che risale addirittura ai nostri avi latini: dividendola.
Renzi ha cominciato subito a mettere in pratica questa antica strategia. Con la scelta di privilegiare il taglio dell’Irpef rispetto a quello dell’Irap vuole dividere gli interessi degli imprenditori tra coloro che prevalentemente esportano e coloro che soffrono, sul mercato interno, la debolezza dei consumi. Nello stesso tempo, cerca di separare la dirigenza Cgil della maggioranza dei suoi iscritti, perché alle lamentele di Camusso per la mancata consultazione dei sindacati si prepara a rispondere con una riduzione delle tasse proprio sui redditi più bassi.
Il rifiuto del tradizionale modello concertativo da parte del premier non prevede, d’altra parte, uno scontro totale con le rappresentanze imprenditoriali e sindacali, perché Renzi nega a loro il diritto di veto sui provvedimenti governativi, ma cerca un negoziato, una specie di «do ut des», attraverso il quale esse rinuncino a vantaggi e garanzie ormai insostenibili di quelle categorie «protette», in cambio di concrete contropartite salariali e occupazionali. Anche in questo caso, una proposta con molti rischi da parte del presidente del Consiglio, perché tende ad agevolare le richieste delle aziende e degli iscritti per ridurre i poteri dei vertici confindustriali e sindacali.
Se si considera, poi, l’esigenza primaria di un successo al voto di fine maggio, è ovvia la scelta di subordinare gli interessi dei lavoratori autonomi, meno garantiti, a quelli dei dipendenti statali e delle grandi imprese, più garantiti. È vero che Renzi cerca di allargare il tradizionale perimetro dei consensi al Pd, ma neanche il suo frenetico e spregiudicato trasversalismo politico può fargli dimenticare la necessità di sostenere, innanzi tutto, le categorie sulle quali, da quasi 70 anni, si fonda il suffragio alla sinistra italiana.
Ha suscitato giustificati stupori l’invito che Massimo D’Alema ha rivolto a Renzi per presentare il suo ultimo libro. Se si pensa, però, che anche il primo presidente del Consiglio ex comunista arrivò a Palazzo Chigi con una manovra di palazzo, che anche lui cercò di fronteggiare il potere dell’allora capo Cgil, Sergio Cofferati, che anche lui chiese un voto che sanzionasse la sua legittimità a governare, forse, l’incontro potrebbe assumere un curioso significato. Vista la sconfitta, su tutti fronti, subita da D’Alema nella sua esperienza governativa, sia da Cofferati, sia dal verdetto elettorale, si potrebbe pensare o che l’ex capo della sinistra italiana voglia elargire, in quell’occasione, qualche paterno e beneaugurante consiglio all’ultimo suo successore o preannunciargli, più o meno malignamente, il destino che lo aspetta.
La Stampa 12.03.14