Chi ha paura delle donne? Il Paese no. L’Italia è pronta. Eppure s’è deciso di andare contro il sentimento del tempo, con il voto segreto in Parlamento, a sigillo di una convenienza camuffata da libertà di coscienza. Così, all’arma bianca, hanno bocciato gli emendamenti alla legge elettorale.
Come se si trattasse di un vezzo. Di un capriccio. E li hanno debellati senza troppi complimenti. Per ogni donna che entra, un uomo deve stare fuori. Non è la jungla, ma la rappresentazione plastica di una legge elettorale, l’Italicum (checché ne dica il relatore Francesco Paolo Sisto: la sentenza della Corte Costituzionale n. 422 del 1995 è stata superata dalla nuova formulazione dell’arti- colo 51 della Costituzione) – a rischio di incostituzionalità, per il premio di maggioranza, e per le liste bloccate. E dunque: se di liste bloccate si tratta, donne e uomini hanno lo stesso diritto di competere per la piena eleggibilità.
Non è una crisi di nicchia, non è una rivolta subalterna. Non è un computo piccolo-piccolo, da ghetto, ma l’indicazione di un correttivo essenziale.
La democrazia non è una quisquilia. O è democrazia paritaria, o non è. E se è paritaria, non lo è solo per nomina glamour, come gesto benevolo, attrattivo ancorché arbitrario. Alla mercé delle fantasmagorie del segretario di partito.
Lo afferma la Costituzione, non un’agenzia di sondaggi. Uomini e donne devono avere pari opportunità. Niente di più, niente di meno. Articolo tre, articolo cinquantuno. Tutto qui. Eppure non siamo ancora qua. In stallo.
Ma c’è chi si è dato da fare per descrivere la battaglia delle donne alla Camera come una questioncina vezzosa, da area protetta, oppure strumentale, di sabotaggio del governo. Non è così.
Pur di fraintendere le donne ci si appella a complotti inconsistenti. Da un buon decennio siamo oltre la vulgata delle quote: le donne, oggi – al netto dell’Italicum – chiedono garanzie formali: tecniche, certo, noiose sicuramente, ma essenziali, per non essere escluse dalla competizione.
Le donne, al varo della legge, chiedevano solo una clausola di garanzia: cinquanta e cinquanta di capilista e alternanza uno a uno nelle liste: misure semplici, cui nulla osta, per garantire a tutti e a tutte le stesse possibilità di competere, per poter esser eletti.
Non è necessario essere dei costituzionalisti per capire che la legge elettorale Italicum non è la migliore delle leggi possibili. Tutt’altro. È piena di difetti: ancora una volta le liste bloccate, ancora una volta un premio incongruo di maggioranza. Emendarla non solo era legittimo, ma doveroso. Eppure, l’attenzione s’appunta sugli emendamenti eversivi, trasversali, delle donne. Come se si trattasse di un sabotaggio. Di un’oscura manovra per manomettere l’azione di governo; o peggio, il futuro degli uomini, obbedienti, che già aspirano al loro posto. Garantito, loro sì, in lista.
No. Non bastano le buone intenzioni dei leader. Non basta il carisma taumaturgico dei segretari di partito che impongono l’olio santo sulle teste delle preferite. Le donne vogliono – in mancanza di preferenze, nel cui caso hanno già pronta, come per la legge elettorale regionale della Campania, la doppia preferenza – le stesse condizioni di partenza.
Le novanta donne vestite di bianco alla Camera da giorni tentano di schivare in ogni modo i fendenti goffi dei luoghi comuni.
Eppure tutti – giornalisti, colleghi onorevoli, opinionisti – le ricacciano nel passato. Al ghetto delle quote. Ma l’unica a vestirsi di rosa è Daniela Santanchè, fuori tempo massimo, provocatoriamente contraria alle misure correttive per rendere la legge effettivamente a norma di Costituzione.
Le donne vestite di bianco non chiedono privilegi. Non reclamano riserve indiane. In modo tra- sversale, dal Pd a Forza Italia, affermano la necessità di esserci in questo passaggio. Perché l’Italia ha già intuito tutto. E perché deve essere chiaro, finalmente, che se il gioco è blindato, le donne vogliono essere della partita, non di meno. E non di più.
Il Paese ha capito. Il Parlamento ha bocciato, sapendo esattamente quello che stava facendo. Ci sono buoni motivi per sospettare che la partita non è persa. Anzi. Semmai si gioca altrove.
L’Unità 11.03.14